Tu quoque, liberal-progressista?

Israele è una società più pluralista e aperta di quanto i suoi fondatori socialisti avrebbero mai immaginato.

Di David Dabscheck

image_3033Fra i tanti critici di Israele esiste una categoria che è particolarmente tediosa: i progressisti delusi. Invariabilmente la loro storia inizia in gioventù con una idilliaca esperienza di volontariato in qualche kibbutz degli anni ’60, per poi passare a raccontare della crescente costernazione per la direzione imboccata dal paese negli ultimi decenni, e infine concludere con virile indignazione che Israele non merita più il loro sostegno dal momento che ha tradito il suo retaggio liberal-progressista.
Tony Judt, l’accademico recentemente scomparso, era un tipico esempio di questa categoria: il fiero sionista laburista di un tempo è approdato successivamente a qualificare Israele come un “anacronismo” e a chiedere di rimpiazzarlo con il cosiddetto “stato bi-nazionale”.
In effetti il paese è notevolmente cambiato dai tempi della sua nascita nel 1948. Ma a onor del vero, sotto quasi ogni aspetto – dai diritti civili e sociali, al trattamento delle minoranze, al processo di pace – si è spostato nettamente più a sinistra. Oggi Israele è una società più pluralista, più multi-culturale e più aperta di quanto i suoi fondatori socialisti avrebbero mai potuto immaginare. Di fatto, anzi, in molti campi ha imboccato una strada espressamente più “liberal” degli stessi Stati Uniti. Ad esempio, sebbene il diritto di voto sia la chiave di volta di ogni sistema democratico, attualmente gli Stati Uniti privano di questo diritto circa 5,3 milioni di loro cittadini sulla base di condanne penali. In diversi stati americani la limitazione o addirittura la privazione del diritto di voto si estende persino a detenuti in libertà condizionata. Israele, al contrario, non pone restrizioni al diritto di voto dei detenuti, una prerogativa che viene garantita anche ai condannati per i reati più riprovevoli.
Analogamente, nel 1993 l’amministrazione Clinton tradusse in legge la politica del “non chiedere, non dichiarare” che costringeva alla clandestinità i militari omosessuali, uomini e donne, in servizio nelle forze armate statunitensi. In quello stesso anno la Knesset, dopo aver ascoltato testimonianze sulle discriminazioni a danno di omosessuali nell’esercito, adottava esattamente la linea di condotta opposta. Di conseguenza, le Forze di Difesa israeliane modificarono la loro politica ufficiale e da allora gay e lesbiche vengono trattati esattamente allo stesso modo dei loro commilitoni eterosessuali.
E ancora. Nonostante Israele si sia trovato sotto minaccia di guerra praticamente per tutta la sua esistenza, anche il suo comportamento verso gli arabi palestinesi, sia dentro che fuori i confini del paese, si è spostato a sinistra. I progressisti disillusi possono ricordare con nostalgia i primi tempi d’Israele, ma per i cittadini arabi del paese non si trattò di tempi tanto felici. Fino al 1966 vissero sotto amministrazione militare, vi furono confische di terre, permaneva una iniqua distribuzione delle risorse. È solo negli ultimi vent’anni che i vari governi israeliani hanno seriamente affrontato la disparità socio-economica fra le due comunità attraverso una legislazione di “affermative action” e altre scelte politiche nella stessa direzione. Scelte che hanno ben presto iniziato a dare i loro frutti, con la nomina del primo ambasciatore arabo nel 1995, il primo giudice arabo alla Corte Suprema nel 1999 e il primo ministro arabo (dopo vari vice ministri) nel 2007.
Naturalmente la questione più assillante per questi critici è l’atteggiamento d’Israele sul processo di pace e sul controllo della Cisgiordania (e, fino al 2005, della striscia di Gaza). Anche qui, tuttavia, nel corso degli ultimi decenni la tendenza sia delle politiche di governo che dell’opinione pubblica israeliana si è innegabilmente avvicinata sempre più al campo delle “colombe”. Se era stato un primo ministro laburista, Golda Meir, ad affermare nel 1969 che “esistono dei profughi palestinesi, ma non esiste un popolo palestinese”, è stato un primo ministro di destra, Binyamin Netanyahu, a propugnare ufficialmente l’anno scorso la creazione di uno stato palestinese. Incolpare sempre e soltanto “l’intransigenza israeliana” per la mancanza di un accordo significa non solo operare una grossolana semplificazione della storia, ma anche perdere completamente di vista la classica foresta (progressista) che sta dietro al singolo albero (apparentemente conservatore).
Dunque, ciò che sembra realmente ispirare questo rancore non sono tanto le nobili preoccupazioni progressiste, quanto qualcosa di assai più banale: un bieco pregiudizio. L’élite di socialisti laici e askenaziti che un tempo dominava in Israele, e con la quale questi critici si identificavano, è in larga misura scomparsa. La società israeliana contemporanea è più apertamente religiosa e culturalmente meno europea di quanto non fosse nei primi decenni. Inoltre oggi è gestita da gente che non agisce, e certamente non si presenta, con i tratti tipici di questi autoproclamati progressisti. Per cui, ricorrere continuamente ad accuse di tradimento scarsamente fondate nei fatti è solo un modo gratificante di mascherare il proprio disagio di fronte a una crescente “alterità”.
Paradossalmente questo schema ha tratti curiosamente simili al movimento americano di estrema destra detto Tea Party. Entrambi si rifanno a un presunto passato “perfetto” per sostenere che il paese ha perduto la giusta direzione. Naturalmente tale visione in bianco e nero nasconde gran parte dei dati storici, ma serve a legittimare l’appello a “riprendersi il paese” dalle mani di intrusi dall’aspetto alieno. Fortunatamente per gli israeliani, i loro equivalenti dei Tea Party non sono in genere cittadini del paese, e così viene loro risparmiato lo spettacolo di una Christine O’Donnell che parla ebraico.
I progressisti devono esigere di più da Israele? Certamente, in particolare per l’introduzione del matrimonio civile, per la riduzione delle disuguaglianze delle minoranze, per portare avanti negoziati di pace in buona fede. Esiste il pericolo di una crescita di estremismo e intolleranza? Senza dubbio. Tuttavia, il fatto che un paese che ha sostenuto tante guerre, una imponente crescita della popolazione ed enormi trasformazioni sociali, tenga ancora salda questa direzione di marcia è un primato di cui ogni progressista dovrebbe andare fiero.

(Da: Jerusalem Post, 7.12.10)

Nella foto in alto: David Dabscheck, autore di questo articolo