Come fermare la bomba iraniana: nessuno ha la ricetta in tasca

Una democrazia che discute apertamente questioni cruciali.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3513Scrive Haaretz che «i promotori dell’iniziativa [contro gli impianti nucleari iraniani], il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, non sono riusciti a superare il primo ostacolo per ottenere una maggioranza a favore della loro posizione fra gli otto principali ministri del governo, il cosiddetto “ottetto”». Secondo l’editoriale, «la loro attuale campagna mediatica, volta a reclutare il sostegno dell’opinione pubblica a favore di un attacco, ha il solo scopo di mostrare agli oppositori che la linea Barak-Netanyahu rispecchia la volontà della gente». E conclude: «L’Iran non otterrà la bomba atomica nel prossimo anno e, benché agire contro di esso possa rivelarsi necessario in futuro, oggi non è una necessità urgente. Le armi nucleari iraniane sono pericolose per Israele, ma la demagogia è altrettanto pericolosa».

Scrive Alex Fishman, su Yediot Aharonot: «A partire da dicembre, Israele si troverà in una condizione per cui sarà totalmente dipendente da un soggetto esterno, l’America, che si suppone impegnato a rimuovere quella che viene definita una “minaccia all’esistenza stessa di Israele”. Tutti i dirigenti dello stato di Israele, per generazioni, hanno fatto di tutto per non ritrovarsi chiusi in quest’angolo».

Scrive Ben Caspit, su Ma’ariv: «Bluffare è prerogativa di Netanyahu e Barak, ma è ormai giunto il momento che decidano se bombardare o no gli impianti in Iran, altrimenti rischiano di non essere più persi sul serio né qui né all’estero. Comunque, deve essere chiaro: se Netanyahu e Barak decidono che è così, hanno il pieno diritto di farlo. Avranno la maggioranza nel governo e daranno avvio all’operazione. È così che funziona in democrazia».

Scrive Eyal Zisser, su Yisrael Hayom: «Sembra che l’Iran non si sia ancora convinto che la comunità internazionale, e soprattutto gli Stati Uniti, sono veramente decisi a fare di tutto per fermare il suo programma nucleare». Secondo l’editorialista, «questo è il momento di reclutare la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, per un ultimo sforzo prima che sia troppo tardi per fermare gli iraniani».

Dan Margalit, su Israel HaYom, dopo aver ironicamente notato che «l’attacco contro il programma nucleare iraniano era in pieno svolgimento, lo scorso fine settimana… sui mass-media israeliani», e che «ogni commentatore pensa di essere il primo ministro», aggiunge: «Ma quelli di noi che non hanno una netta posizione, per lo più critica, originata in molti casi da motivazioni politiche, sentono la necessità di rivedere i fatti prima di farsi un’opinione a favore o contro un attacco al nucleare iraniano. Molti politici e commentatori sembrano avere tutte le risposte chiare e nette, solitamente con un retrogusto di derisione e disprezzo per l’opinione opposta. Ma la maggior parte della gente è disorientata. Sarebbe utile chiarire una serie di ipotesi. Ad esempio: il presidente americano Barack Obama ha promesso che non permetterà all’Iran di sviluppare armi nucleari. Per quale motivo dovremmo credere a lui più di quanto credemmo a Bill Clinton o a George W. Bush che giuravano solennemente che alla Corea del Nord non sarebbe mai stato permesso di possedere armi nucleari? Obama non è peggiore dei suoi predecessori, ma è forse migliore? Altro esempio: il commentatore del Canale Due della tv israeliana Amnon Abramovich ha risolutamente affermato che colpire gli impianti iraniani nell’ottobre 2012 avrebbe lo stesso effetto che bombardarli nel febbraio o nel marzo 2013. Cosa lo rende così sicuro? Dopo tutto, ogni giorno che passa offre a Tehran la possibilità di proteggere i suoi impianti nucleari con un altro strato di cemento. Se un attacco due anni fa avrebbe fatto molto di più per fermare gli iraniani di quanto farebbe oggi, sembra ragionevole pensare che un attacco nel marzo 2013 sarà meno efficace di un attacco nell’ottobre 2012, o no? Il tempo non è dalla nostra parte, o c’è qualcosa che mi sfugge?». Secondo l’editorialista, «c’è una quantità di altre questioni politiche» e lo stesso ministro delle difesa Ehud Barak «ci deve una spiegazione: è stato riferito che aveva parecchie riserve quando nel 2007 si trattò di decidere il bombardamento dell’impianto nucleare in Siria e che saltò sul carro solo all’ultima votazione prima dell’attacco. Si è detto che temeva le conseguenze dell’attacco sul fronte interno. Dunque, cosa è cambiato fra il 2007 e il 2012? Infine, la questione più importante: tutti coloro che si oppongono a un attacco dicono che “c’è tempo”. Argomento ragionevole, ma che non risponde alla domanda essenziale: se tutte le misure – sanzioni economiche, pressioni diplomatiche, promesse americane – dovessero fallire, sono pronti a promettere sin d’ora che cambieranno opinione e appoggeranno l’opzione militare contro gli impianti nucleari iraniani? Quando si trattasse di scegliere seccamente fra lanciare un raid israeliano o accettare un Iran con la bomba atomica, quale sarà la loro posizione?». Conclude l’editorialista: «Personalmente, non mi sono ancora fatto un’opinione definitiva».