La proliferazione come un’epidemia

L’Iran ha i missili, gli islamisti fanno attacchi suicidi: l’atomica in M.O. minaccerebbe il mondo intero

Da un editoriale di Ha'aretz

image_1836Lo scorso fine settimana alti funzionari del Dipartimento di stato americano hanno confermato alcuni dettagli comparsi sulla stampa riguardo ai legami nucleari fra Siria e Corea del Nord. In varie interviste e interventi, il segretario di stato Rice, il vice assistente per la non proliferazione nucleare Andrew Semmel e, in una certa misura, l’assistente agli affari dell’Asia orientale Christopher Hill, hanno tutti espresso il timore che la Corea del Nord stia cercando di esportare tecnologia o materiale nucleare in altri paesi. La Rice ha citato la preoccupazione del presidente George W. Bush perché “le armi più pericolose del mondo non finiscano nelle mani della gente più pericolosa del mondo”.
In aggiunta ad altri obiettivi regionali, quello di impedire la proliferazione delle armi nucleari è in vetta all’agenda delle priorità dell’amministrazione Bush. Se è vero che lo stesso valeva anche per le amministrazioni precedenti, è innegabile che negli ultimi sei anni, a partire dagli attacchi dell’11 settembre, è andata sempre crescendo la preoccupazione a Washington per la possibilità che armi nucleari raggiungano regimi estremisti e organizzazioni terroristiche, che non esiterebbero a compiere attacchi atomici su città americane.
È evidente che la volontà di prevenire ad ogni costo tali attacchi nel cuore dell’America agita Bush e i capi dei suoi servizi di sicurezza e di intelligence. Ma ci sono anche altre ragioni che spronano lo sforzo per bloccare la proliferazione nucleare. La diffusione di tali armi assomiglia a quelle malattie epidemiche che colpiscono tutti coloro che vi entrano in contatto, sia coloro che le sono vicini, sia coloro che cercano di vaccinarsi dalla minaccia.
Gli Stati Uniti hanno visto frustrati i loro tentativi di convincere India e Pakistan, paesi non firmatari del Trattato di Non Proliferazione, a disarmarsi congiuntamente prima che sia risolto il loro conflitto sul Kashmir. D’altra parte, gli Stati Uniti sono riusciti finora i a limitare la lista dei membri dichiarati del club nucleare ai cinque stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Intanto ben quattro stati – Ucraina, Kazakistan, Sud Africa e Libia – hanno rinunciato alle loro risorse nucleari militari, nella consapevolezza che mantenere quelle armi comportava costi di gran lunga maggiori dei vantaggi che comportava abbandonarle.
La questione del programma atomico iraniano è in primo piano sull’agenda internazionale. Gli Usa sospettano che il regime dell’ayatollah Ali Khamenei e del presidente Mahmoud Ahmadinejad intenda acquisire testate nucleari per i suoi missili balistici terra-terra Shihab, che esistono in diversi tipi, da quelli a gittata media (in grado di colpire Israele), a quelli a lunga gittata (capaci di raggiungere le capitali europee), fino a quelli intercontinentali (in grado di minacciare Washington e New York). Se l’Iran ottenesse la bomba, diventerebbe una superpotenza regionale, e forse anche più che regionale. L’intero Golfo Persico, con tutte le sue riserve di petrolio, sarebbe alla sua mercé. Come conseguenza, sussiste il pericolo che gli altri stati arabi o musulmani ostili a Israele cerchino a loro volta di dotarsi di armi nucleari.
Se la Siria acquisisse armi nucleari, potrebbe dotare se stessa e i terroristi jihadisti Hezbollah di un ombrello atomico. E se elementi estremisti islamisti dovessero prendere il potere a Damasco, potrebbero arrivare ad usare queste armi in una sorta di mega attacco suicida di un genere che il mondo finora non ha mai visto.
Lo sforzo americano di impedire la proliferazione nucleare, sia in Iran che sull’asse Siria-Corea del Nord, deve essere dunque sostenuto. L’alternativa sarebbe un’autentica minaccia di escalation verso la guerra e addirittura uno scontro nucleare.

(Da: Ha’aretz, 16.09.07)