L’eloquente differenza fra crimini ed errori

Goldstone si è ricreduto. Sergio Romano no, e sbaglia

di Marco Paganoni, aprile 2011

image_3123Si sa, in cauda venenum: il veleno infilato alla fine di un articolo è quello che resterà, e farà opinione. Per questo, alla fine del suo pezzo sul Rapporto Goldstone (Corriere della Sera, 22.04.11) Sergio Romano scrive che “la guerra di Gaza fece più di 1.400 vittime nel campo palestinese e 13 in quello israeliano: una disparità che è più eloquente di qualsiasi rapporto”. Suona vero, e invece è falso.
Come Romano NON sottolinea nel suo pezzo, l’accusa più infamante avallata dal Rapporto Goldstone era che Israele avesse preso di mira intenzionalmente obiettivi civili commettendo in questo modo dei crimini di guerra. Oggi invece Goldstone ammette che non esiste alcuna prova che da parte israeliana vi fosse intenzionalità nel colpire i non combattenti; mentre, scrive Goldstone, “va da sé che i razzi di Hamas erano consapevolmente e indiscriminatamente indirizzati contro obiettivi civili”. Se Romano permette, la distinzione è fondamentale: è quella che fa la differenza fra guerra e crimine di guerra, fra combattenti e terroristi.
Che quasi due terzi delle 1.166 (non 1.400) vittime palestinesi fossero combattenti lo ha riconosciuto lo stesso “ministro” degli interni di Hamas, Fathi Hammad, che al giornale pan-arabo edito a Londra al-Hayat (1.11.10) ha parlato di almeno 700 caduti fra i miliziani a vario titolo affiliati a Hamas e ad altre fazioni armate: un dato sorprendentemente vicino a quello sempre sostenuto da Israele di 709 combattenti nemici uccisi.
Poi, disgraziatamente, esistono i civili uccisi senza intenzione: tragedie, non crimini. E sarebbero stati molti di più se Israele non avesse adottato (contro ogni logica strettamente militare) tutta una serie di misure per avvertire la popolazione civile degli attacchi imminenti (con le migliaia di volantini e persino telefonate di pre-allarme). Errori – non crimini – purtroppo sono sempre possibili. Basti ricordare che degli stessi soldati israeliani morti in quell’operazione, quasi la metà caddero per “fuoco amico”, certamente non intenzionale. Criminale, piuttosto, è l’uso dei civili come scudi umani. Ed è raccapricciante vantarsene, come fece lo stesso Fathi Hammad alla tv Al-Aqsa (29.2.08) quando dichiarò che i palestinesi “formano scudi umani fatti di donne, bambini, anziani e mujahidin [combattenti] allo scopo di sfidare la macchina da bombardamento sionista”. Ecco perché Goldstone ha dovuto rimangiarsi la sua accusa.
Con buona pace di Sergio Romano, tolte da ogni contesto, le nude cifre (oltretutto inesatte) lungi dall’essere eloquenti sono anzi ingannevoli. In ogni guerra, obiettivo delle forze armate è quello di infliggere il maggior danno possibile ai combattenti nemici, cercando di subire il minor danno possibile. Accusare i militari d’aver fatto esattamente questo, oltre che ingiusto è irragionevole. In nessuna guerra si è mai chiesto a una parte – specie a quella che reagisce a un’aggressione – di “proporzionare” il numero di nemici uccisi al numero di perdite subite. Cosa dovrebbero dire gli israeliani ai loro soldati? Di farsi ammazzare un po’ di più per soddisfare le esigenze di “proporzionalità” degli spettatori? Tanto per fare un esempio, nell’infausta battaglia degli elicotteri Black Hawk abbattuti a Mogadiscio il 3-4 ottobre 1993, caddero 18 soldati americani contro diverse centinaia di somali, forse addirittura mille, per lo più combattenti di Mohamed Farrah Aidid. In quel periodo, in Somalia, caddero anche 14 italiani (undici militari, un’infermiera della Croce Rossa e due giornalisti). Si perdoni la crudezza, ma si è mai sentita un’opinione pubblica occidentale lamentare che il proprio paese subisse “troppe poche perdite” rispetto a quelle inflitte al nemico? Pretendere da Israele l’impossibile serve solo a demonizzare gli israeliani proprio su un terreno, quello dell’etica di guerra, su cui nonostante tutto sono sempre riusciti a mantenere standard più elevati di tanti altri, e certamente dei loro nemici.

Nella foto in alto: Richard Goldstone