Lunica opzione ragionevole

Il piano di disimpegno non è stato sconfitto dall'assassinio di Tali Hatuel e delle sue quattro bambine.

Gerald M. Steinberg, Università Bar-Ilan

image_129Il piano di disimpegno unilaterale del primo ministro israeliano Ariel Sharon non è stato sconfitto dal brutale assassinio di Tali Hatuel, incinta all’ottavo mese, e delle sue quattro bambine. Anche senza questa orrenda strage, il piano era destinato ad essere sconfitto dagli iscritti del Likud. I sondaggi e le grandi manifestazioni di sostegno a Gush Katif nella Giornata dell’Indipendenza avevano già mostrato come i sentimenti volgessero contro il “ritiro”. I risultati del referendum di domenica non hanno fatto che confermarli.
Ma proprio qui sta il punto. I 60.000 membri del Likud che hanno votato contro il piano di disimpegno erano spinti prima di tutto da emozioni e sentimenti, non da un chiaro e freddo ragionamento razionale. Ora che hanno vinto la loro battaglia, l’onere della responsabilità si è spostato sugli avversari del piano di Sharon. E da adesso in poi le emozioni non bastano più. E’ stato abbastanza facile denunciare i pericoli insiti in un “ritiro” di fronte al terrorismo, e schierarsi contro una cessione di territorio in mancanza di un accordo di pace. Molto più difficile sarà proporre un’alternativa credibile e razionale che risponda agli interessi nazionali di Israele.
In verità alcuni avversari del piano, come i ministri Uzi Landau (del Likud) e Effi Eitam (del Partito Nazionale Religioso), hanno articolato una chiara alternativa: Israele deve resistere e distruggere i terroristi. A prima vista questa posizione ha un certo fascino emotivo. Dopo il catastrofico “processo di pace” di Olso e gli innumerevoli attentati palestinesi, ciò che Israele deve fare è mostrare determinazione e conseguire una vittoria militare su Yasser Arafat e gli altri capi di questa campagna terroristica. In realtà, tuttavia, le chance di arrivare a una resa dei palestinesi nel futuro prevedibile (tra 20 o 40 anni) sono prossime a zero. Dopo la scomparsa di Arafat emergeranno nuovi leader che porteranno avanti la guerra. L’odio e l’indottrinamento continueranno, alimentati dalla ferma convinzione che la rapida crescita della popolazione araba e palestinese, sostenuta da milioni di arabi e miliardi di musulmani, finirà per sopraffare il “nemico sionista”. Nonostante i migliori sforzi delle Forze di Difesa israeliane e i loro successi di breve periodo, gli attentati terroristici continueranno a essere la principale dimensione di questa guerra ad oltranza, come avviene da più di 75 anni. Parallelamente i falsi profeti della comunità internazionale, installati nell’Unione Europea e nelle Nazioni Unite, continueranno a cercare di imporre le loro proprie iniziative. In questo quadro, e senza profondi cambiamenti politici e sociali nel mondo arabo, la situazione di Israele non migliorerà per molto tempo e una politica basata interamente sulla resistenza militare si ridurrebbe a inseguire una vittoria del tutto illusoria.
Riconoscendo implicitamente questi limiti, Natan Sharansky presenta invece uno scenario fondato sull’ipotesi di un cambiamento interno, nella società palestinese e in quella araba più ampia, basato sulla democrazia. Questa ricetta trova le sue radici nell’esperienza dell’Unione Sovietica, i cui cittadini trovarono gradualmente il coraggio di opporsi al regime totalitario. L’idea di Sharansky riflette anche la ferma convinzione che tutti i popoli, compresi quelli islamici, siano animati dal desiderio intrinseco di poter governare le proprie vite e di potersi scegliere liberamente i propri leader. E dal momento che le democrazie non si fanno la guerra fra loro per distruggersi a vicenda, ne deriva che la strategia migliore per Israele è quella di adoperarsi, insieme agli Stati Uniti, per creare le condizioni per un cambiamento nelle società del Medio Oriente. Una volta che questo processo avrà preso piede, potremo negoziare i confini nel quadro di un più ampio accordo di pace che comprenda anche la rimozione di insediamenti e altri cambiamenti dello status quo. Viceversa, un ritiro in questa fase avrebbe esattamente il risultato opposto di rafforzare gli attuali leader e regimi. Concettualmente questo scenario ha più spessore della semplice “vittoria sul terrorismo”. Ma ad un più attento esame, l’analogia con l’esperienza dell’Unione Sovietica pone una serie di problemi. A differenza dell’impero comunista, dove l’ideologia si era trasformata in una pura facciata, tra arabi e palestinesi l’odio storico e religioso è profondamente radicato. Vi sono alcune persone che si sono schierate contro le devastanti politiche di Arafat e di Hamas e a favore di un compromesso e del riconoscimento reciproco, ma si tratta di voci isolate e nulla fa pensare che possano realmente guadagnare terreno nei prossimi dieci anni, e forse nemmeno nella prossima generazione. Inoltre, una democrazia limitata, in qualunque forma possa alla fine affermarsi in Medio Oriente, non offre alcuna garanzie di moderazione e compromesso. Le falle di questo argomento sono ben visibili oggi in Iraq e nella cieca fiducia dell’amministrazione Bush nel potente fascino della liberazione in quanto tale. A un anno dalla caduta del regime, l’Iraq è un campo di battaglia e si intravedono pochi segni della nascita di una società pluralistica fondata sullo stato di diritto. Il processo di democratizzazione può richiedere generazioni. Ma nel frattempo continuano ad agire le forze dell’estremismo e le motivazioni del terrorismo. Di conseguenza, sebbene la strategia della democratizzazione sia affascinante, essa rappresenta un grande rischio accompagnato da ben poche possibilità di riuscita.
In conclusione, nonostante il risultato del referendum del Likud, il disimpegno unilaterale resta per Israele l’opzione meno peggiore e più realistica. E’ una scelta che rende le cose più difficili ai terroristi, riduce la minaccia demografica, permette di gestire il conflitto con gli strumenti della deterrenza e dell’interdizione, riduce gli attriti quotidiani. A un’analisi attenta, nessuna delle alternative risultano capaci di offrire almeno questi limitati vantaggi. Per questo, quando le emozioni si saranno calmate, il disimpegno unilaterale si rivelerà essere l’unica opzione ragionevole sul tappeto.
(Da: Jerusalem Post, 3.05.04)

Nella foto in alto: Terroristi palestinesi in preghiera durante un raduno nella striscia di Gaza per celebrare l’assassinio a Kissufim di una madre israeliana di 34 anni e delle sue quattro bambine.