Un ruolo vitale per Abdullah di Giordania

Il re dovrebbe spingere la Lega Araba a trasformare il suo diktat in una vera iniziativa di pace

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2492Quando l’aereo della Royal Jordanian Airlines con a bordo papa Benedetto XVI in Israele parcheggiava lentamente lunedì verso sulla pista dell’aeroporto israeliano davanti ai dignitari israeliani in attesa, i finestrini della cabina di pilotaggio erano addobbati con le bandiere del Vaticano e di Israele. Una misura semplicemente conforme al protocollo, e che tuttavia costituiva un colpo d’occhio straordinario: una compagnia aerea musulmana che porta il pontefice cattolico nello stato ebraico. E poi c’erano gli echi della calorosa ospitalità riservata poco prima al papa da re Abdullah II e dalla regina Rania.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è senz’altro interessato a incontrare il re giordano prima di vedere il presidente Usa Barack Obama la prossima settimana a Washington. Lunedì, però, subito dopo aver accolto il papa, Netanyahu è volato a Sharm e-Sheikh per pranzare con il presidente egiziano Hosni Mubarak e discutere con lui dell’approccio del nuovo governo israeliano alla questione palestinese, dell’Iran e presumibilmente anche di Gilad Schalit.
Re Abdullah, dal canto suo, ha incontrato Obama (lo scorso 21 aprile), ha parlato al Centro di Studi Strategici Internazionali di Washington (venerdì scorso) e lunedì ha concesso una importante intervista al Times di Londra intitolata in prima pagina “L’ultimatum del re: pace subito o l’anno prossimo sarà guerra”. In tutte queste occasioni il re giordano ha cercato di ribadire lo stesso concetto, benché enunciato con regale understatement: è di Israele la colpa per l’impasse negoziale con i palestinesi e ad Israele restano non più di diciotto mesi di tempo per adeguarsi all’iniziativa di pace araba del 2002. Tutto dipende, sostiene il re, dall’imminente incontro Obama-Netanyahu. Se non vi sarà “una chiara visione americana – leggi: se Obama non farà pesanti pressioni su Israele – il presidente americano perderà la sua credibilità, e la regione si incendierà.
Re Abdullah è un autentico moderato. Suo padre fece la pace con Israele nel 1994. In una regione incline alla prepotenza strillata, Abdullah preferisce i toni della persuasione che suona ragionevole. E tuttavia colpisce il fatto che in tutte queste sue recenti dichiarazioni egli non abbia fatto alcun cenno a un’autocritica araba: neanche una parola su ciò che toccherebbe ai palestinesi fare per la pace.
Il re naturalmente vuole la fine dell’”occupazione”, sostiene che “l’iniziativa araba è la più importante proposta di pace nella storia del conflitto”, e mette in guardia che “qualunque sforzo da parte di Israele di scambiare l’indipendenza palestinese con lo sviluppo palestinese” è inaccettabile. Tuttavia il re sicuramente sa bene che:
– Israele non ha interesse a “occupare” i palestinesi. Questa è stata la posizione di tutti i premier israeliani da Rabin a Netanyahu. Sono i palestinesi che hanno prolungato l’”occupazione” respingendo generose offerte volte a porre fine al conflitto (l’ultima avanzata da Ehud Olmert e Tzipi Livni alla fine del 2008).
– L’iniziativa araba, così com’è, si presenta come un diktat “prendere o lasciare” fatalmente destinato al fallimento. Peccato dunque che proprio la settimana scorsa la Giordania abbia smentito d’aver accolto il suggerimento che, secondo notizie di stampa, Obama le aveva fatto di condurre una campagna diplomatica presso gli arabi per rendere quell’iniziativa più accettabile.
– I palestinesi non sono per nulla pronti – oggi, adesso – per una sovranità totale. Sono violentemente spaccati fra Cisgiordania e striscia di Gaza. La stessa Fatah è polarizzata fra fazioni generazionali. Le istituzioni politiche palestinesi sono, diciamo così, allo stato embrionale. Affrettarsi a creare una “Palestina” militarizzata metterebbe in pericolo sia Israele che la Giordania (la maggioranza della cui popolazione è palestinese).
La notizia buona è che la moderata Giordania potrebbe sì giocare un ruolo vitale nel promuovere la pace: non tanto con le frasi ad effetto di Abdullah del tipo “offriamo loro un terzo del mondo che li incontra a braccia aperte”, quanto piuttosto con un serio lavoro inteso a ridurre la distanza fra le parti: giacché nessuno meglio del re hashemita può capire le dinamiche della politica palestinese o apprezzare il valore geostrategico della terra a ovest del fiume Giordano.
Anziché aspettare che Obama gli porga un Israele soggiogato, il re dovrebbe fare opera di persuasione nella Lega Araba per apportare miglioramenti essenziali al loro piano: rimuovere la richiesta irrealistica di un totale ritiro israeliano sulle indifendibili linee armistiziali del 1949; lasciar cadere l’insistenza palestinese sul cosiddetto “diritto al ritorno” all’interno di Israele (nient’altro che un meccanismo per asfissiare demograficamente Israele); aggiungere l’indispensabile clausola che impegni la Lega Araba a riconoscere il legittimo diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione.
Il re svolge un eccellente lavoro per far sembrare ragionevole la posizione araba. Ma potrebbe promuovere molto meglio la causa della pace se aiutasse a rendere quella posizione davvero ragionevole nella pratica.

(Da: Jerusalem Post, 12.05.09)

Nella foto in alto: re Abdullah II di Giordania (a destra) ricevuto dal presidente siriano Bashar Assad lunedì a Damasco