Spiacenti, ma allo stato attuale non esiste una soluzione a due stati

Era bello credere che fosse possibile un accordo di pacifica spartizione del paese con il nazionalismo palestinese, ma dopo il 7 ottobre gli israeliani (non solo Netanyahu) non possono permettersi di cadere in un nuovo inganno

Di Gadi Taub

Gadi Taub, autore di questo articolo

Non biasimo nessun sionista o alleato di Israele per aver abbracciato la soluzione a due stati, come ho fatto anch’io per molti anni. Nessun altro piano di pace potrebbe conciliare così perfettamente interessi personali e nobili principi. Nessun altro piano potrebbe offrire un modo migliore per trascendere le contraddizioni che la realtà impone agli israeliani, proponendo addirittura un argomento sionista a favore dello stato palestinese. Molto più potente di una semplice soluzione a un problema, l’idea dei due stati era per molti di noi una sorta di irresistibile seduzione: una promessa che la spartizione della terra avrebbe potuto dare completezza a Israele.

La seduzione scaturiva dalle nostre basilari convinzioni sioniste. La stessa Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele afferma che “è diritto naturale del popolo ebraico essere, come tutti i popoli, padrone del proprio destino nel proprio stato sovrano”. La spartizione renderebbe questa posizione internamente coerente, avvalorando i nostri diritti nel momento in cui ci battiamo per i loro. E concilierebbe l’idea liberale con il nazionalismo. Dopotutto l’occupazione minaccia entrambi, perché non solo vìola i diritti umani dei palestinesi, ma mette anche in pericolo la maggioranza ebraica. La spartizione risolverebbe entrambi i problemi in un colpo solo.

La soluzione a due stati era anche per sua natura molto accattivante per gli amici di Israele in Occidente, in particolare per gli ebrei liberal e di sinistra: di fronte al continuo tentativo di dipingere il sionismo come colonialismo, l’ebraismo come messianismo fondamentalista, le Forze di Difesa israeliane come un esercito di occupazione e Israele come uno stato di apartheid, la soluzione a due stati dissolverebbe tutte queste calunnie con un unico gesto.

Ma per quanto sia convincente come strategia per il dibattito o come forma di autoterapia, la soluzione a due stati, purtroppo, non è affatto una soluzione. Si tratterebbe piuttosto di un grande passo avanti verso la creazione di un altro Libano. Non salverebbe il progetto sionista, ma anzi lo condannerebbe a un destino fatto di ulteriore sofferenza e nuovi spargimenti di sangue, sia per gli israeliani che per i palestinesi.

I soldati israeliani riferiscono che praticamente in ogni casa della striscia di Gaza si trova in bella mostra la mappa della “Palestina” che cancella Israele dalla carta geografica

Ormai la maggior parte di noi in Israele comprende questa terrificante equazione. Se tra noi c’era ancora una corposa minoranza che si aggrappava alla promessa dei due stati nonostante l’evidenza della “seconda intifada” (l’intifada delle stragi suicide ndr) e di tutto ciò che ne seguì, dopo il 7 ottobre quella minoranza si è drammaticamente ridotta.

Ora sappiamo esattamente cosa hanno in mente, per noi, i nostri potenziali vicini. Vediamo che la grande maggioranza dei palestinesi sostiene Hamas ed è molto compiaciuta dei suoi massacri. Pertanto, la maggior parte di noi ritiene che sarebbe un suicidio trasformare Giudea e Samaria (la Cisgiordania ndr) in un altro Hamastan per dare soddisfazione a coloro che considerano la carneficina una fonte d’ispirazione e i suoi autori dei modelli da emulare.

Quale persona sana di mente infliggerebbe ai propri partner, figli, amici e genitori la immancabile mattanza che ne seguirebbe?

Coloro che sentono impellente il bisogno di manifestare travolgente simpatia per uno dei tanti popoli del mondo privi di uno stato, perché non iniziano con i curdi, o i catalani, o i baschi, o i rohingya, o i beluci o uno qualsiasi delle decine di gruppi subnazionali, nessuno dei quali sembra che possa raggiungere tanto presto l’agognato obiettivo della statualità? Dopotutto, ci vollero quasi duemila anni perché gli ebrei riuscissero a rifondare il loro stato. Se i palestinesi sono così determinati ad ammazzarci tutti sulla via per realizzare il progetto di rimpiazzarci, beh presumo che anche loro possono aspettare un po’.

Gli israeliani che ancora desiderano la nascita in queste condizioni di uno stato palestinese sono oggi una minoranza molto piccola. Ma è una minoranza ben posizionata: politici e giornalisti di estrema sinistra, alcuni accademici, alcuni vertici delle forze armate. Non sorprende che molti di questi si siano formati nelle università americane. Ma non hanno più alcun reale peso elettorale.

Lo sanno anche loro. Ed è per questo che anche loro, gli uomini e le donne fermi al 6 ottobre, raramente osano dire al pubblico israeliano che sostengono ancora la soluzione a due stati. Per lo più vi alludono con vaghi riferimenti che spesso riecheggiano o addirittura ripetono a pappagallo le argomentazioni standard di Washington, come le esortazioni circa un “orizzonte politico per il giorno dopo”, che non viene mai specificato.

Se solo si facessero più specifici sarebbero destinati a perdere gran parte del loro pubblico. E, inutile dirlo, qualsiasi tentativo di tradurre in ebraico “Autorità Palestinese rivitalizzata” si fa ridere dietro.

Certo, la soluzione a due stati era un nobile sogno. Ma salta fuori che è sempre stata solo questo: un sogno. Ciò che ha consentito, a coloro che vi sono rimasti aggrappati abbastanza a lungo, di andare avanti come sonnambuli in mezzo ai relitti degli autobus che saltavano in aria, ai corpi dei civili ammazzati, ai martellanti ed espliciti appelli a usare la violenza contro di noi da scuole tv conferenze e moschee, agli sforzi massicci per costruire gigantesche strutture terroristiche sotto il nostro naso e a ridosso dei nostri confini, ciò che ha consentito di restare aggrappati a quel sogno è stata la nostra tendenza a figurarci i palestinesi a nostra immagine.

L’identità nazionale palestinese è costruita sull’ambizione di sradicare ogni traccia di sovranità ebraica “dal fiume al mare”, un concetto che esclude in partenza qualunque soluzione a due stati

Nonostante tutti i discorsi alla moda sulle diversità, alla fine ci risulta difficile immaginare un popolo totalmente diverso da noi: conoscendo la nostra aspirazione all’autodeterminazione, e i compromessi che siamo disposti ad accettare pur di poterla esercitare, davamo per scontato che anche i palestinesi vogliano soprattutto essere padroni del proprio destino nel proprio stato sovrano.

Ma non è quello che vogliono. La colossale quantità di aiuti internazionali che i palestinesi hanno ricevuto dal 1948 in poi non è mai stata utilizzata per la costruzione della nazione. Non è stata utilizzata per costruire case e strade o per piantare aranceti. È stata massicciamente impiegata per tutt’altra causa: la distruzione dello stato ebraico.

E’ ciò che fa da sempre l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi: sovvenzionare e proteggere le infrastrutture terroristiche palestinesi. E’ ciò che fa l’Autorità Palestinese con i vitalizi “pagati per uccidere” che versa a terroristi e famiglie di terroristi. Ed è ciò che Hamas ha potuto fare grazie ai miliardi investiti a Gaza: ha acquistato armi, addestrato terroristi e costruito una smisurata rete di tunnel terroristici, ma nemmeno uno straccio di rifugio anti-aereo per i civili.

Come dimostrano Einat Wilf e Adi Schwarz nel loro best-seller The War of Return, il movimento nazionale palestinese ha costruito il suo ethos e la sua identità attorno al cosiddetto “diritto al ritorno” dei “profughi” palestinesi: con cui intendono la distruzione di Israele mediante l’insediamento all’interno dei confini di Israele della diaspora palestinese, i cosiddetti profughi che l’Unrwa stima in 5,9 milioni. Ma non esiste questo “diritto al ritorno”: in primo luogo, non è un diritto riconosciuto a livello internazionale; in secondo luogo, se attuato non si tratterebbe di un ritorno dal momento che quasi tutti coloro che lo reclamano non sono mai stati in Israele. Di coloro che fuggirono o furono espulsi dalla Terra di Israele nel 1948, solo circa 30.000 sono ancora oggi viventi.

Nessun altro gruppo di persone sulla Terra è considerato “profugo” decenni dopo che così tanti dei suoi membri si sono reinsediati come cittadini di altri paesi con tanto di passaporto. In nessun altro gruppo lo status di “profugo” viene conferito automaticamente ai discendenti. E nessun gruppo di veri profughi è escluso dalle competenze dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e affidato invece alle cure di un’agenzia speciale, l’Unrwa, il cui mandato è perpetuare il problema anziché risolverlo. L’Unrwa da decenni continua ad alimentare la speranza dei palestinesi per una “Palestina libera dal fiume al mare”, consente di immagazzinare armi all’interno delle sue strutture e scuole e di costruire un centro di intelligence e comunicazione di Hamas sotto il suo quartier generale a Gaza, indottrina i bambini a glorificare terroristi, che possono anche essere suoi dipendenti, e diffonde sfacciato antisemitismo mentre si guarda bene dal fare ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio: reinsediare coloro che erano, o sono tuttora, veri profughi.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen: “Non riconoscerò mai l’ebraicità dello stato o uno stato ebraico”. Non c’è mai stata una leadership palestinese pronta a riconoscere la legittimità di uno stato nazionale del popolo ebraico

Ovviamente la centralità del “diritto al ritorno” nell’ethos palestinese significa che la stessa identità palestinese è strutturata come un rifiuto della soluzione a due stati e nega la legittimità di qualsiasi forma di sovranità ebraica in qualsiasi parte della Terra d’Israele. La soluzione a due stati presuppone il riconoscimento reciproco tra i due popoli, con ciascuno che afferma il diritto dell’altro all’autodeterminazione nazionale. Se chiedi la spartizione ma allo stesso tempo pretendi il diritto al ritorno (dentro l’altro stato), allora quello che stai realmente chiedendo è una soluzione con due stati palestinesi: uno stato in Cisgiordania e Gaza etnicamente ripulito dai coloni ebrei, e uno in Israele dove alla fine gli ebrei diventeranno una minoranza e di conseguenza subiranno lo stesso destino delle comunità ebraiche in ogni altro stato arabo.

Non c’è mai stata una leadership palestinese pronta a rinunciare a questo “diritto al ritorno”, il che significa che hanno sempre abbindolato le loro controparti israeliane, così come tutti i mediatori (compresi, ovviamente, i mediatori americani) con falsi negoziati volti a ottenere vantaggi temporanei e guadagnare tempo in preparazione all’obiettivo più ampio di sradicare ogni traccia di sovranità ebraica tra il fiume e il mare. Fortunatamente, hanno fallito ogni volta. Ma il fallimento non gli ha mai impedito di provarci.

Non c’è mai stata una leadership palestinese pronta a riconoscere la legittimità di uno stato nazionale del popolo ebraico. Questo è un dato di fatto costante nel conflitto. La parte araba ha rifiutato tutti i piani di spartizione, a cominciare dalla Commissione Peel del 1937 e la risoluzione delle Nazioni Unite del 1947, fino ai vari piani di mediazione americani e israeliani nonché le offerte dei leader israeliani, compresa l’offerta del 2000 a Camp di David quando il primo primo ministro Ehud Barak accettò la spartizione di Gerusalemme e le ulteriori concessioni offerte successivamente dal primo ministro Ehud Olmert. Sono andate tutte a schiantarsi sulla rivendicazione non negoziabile del “diritto al ritorno”. Persino Salam Fayyad, il tecnocrate ex primo ministro palestinese, una figura priva di sostegno popolare in patria ma amato dai promotori occidentali del processo di pace – e che in questo momento riceve rinnovata attenzione da parte dai mass-media favorevoli all’amministrazione americana – ha ribadito il “diritto al ritorno” in un articolo che ha scritto pochi giorni dopo il pogrom del 7 ottobre.

Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il presidente d’Israele Isaac Herzog ha mostrato un libro trovato in una casa di Gaza intitolato “La fine degli ebrei”, scritto da Mahmoud az-Zahar, uno dei fondatori di Hamas ed ex ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese: un vero e proprio manuale per l’annientamento del popolo ebraico che elogia la Shoà nazista ed esorta le nazioni a seguirne l’esempio

Fortunatamente i palestinesi non hanno mai avuto abbastanza pazienza da cessare anche solo temporaneamente il terrorismo o rinviare la loro pretesa del “ritorno” fino a quando fossero riusciti a mettere insieme più forze e meglio organizzate. A quanto pare, il culto della morte e la venerazione dei “martiri” creano dipendenza da terrorismo e un bisogno incontenibile di sfoghi violenti. Se fin dall’asilo mandi i tuoi figli alle recite dove interpretano l’assassinio di ebrei, non puoi sperare di trattenerli per sempre dall’inscenare davvero quegli omicidi, una volta cresciuti. Evidentemente la pianta dell’identità palestinese deve essere costantemente annaffiata con il sangue di ebrei, per mantenerla in vita attraverso i numerosi sacrifici richiesti da una vita improduttiva di vittimismo permanente.

Se i nostri vicini fossero stati capaci di trattenersi per un po’, la seduzione dei due stati, l’illusione con cui ci baloccavamo per mitigare il travaglio morale dovuto all’imperativo di governare su un altro popolo, avrebbe potuto facilmente esserci fatale.

Se i palestinesi avessero lanciato il mega attacco del 7 ottobre non solo dalla piccola Gaza, ma anche da Giudea e Samaria, un territorio 15 volte più grande e che incombe sui principali centri metropolitani e sull’aeroporto internazionale d’Israele, oggi lo stato ebraico si troverebbe in una situazione estremamente più tragica e precaria.

Senza alcun cuscinetto tra la Cisgiordania e gli stati arabi a est di Israele ci sarebbe un ponte terrestre diretto da Teheran fino alla periferia di Tel Aviv: un rischio che Israele non potrà mai permettersi di correre, e il 7 ottobre non ha fatto altro che rendere crudelmente vividi i pericoli del mondo reale con cui dobbiamo fare i conti.

L’amministrazione Biden, così come i principali media occidentali, possono essere indotti dalla stampa israeliana che detesta Bibi a credere che sia Netanyahu a ostacolare un accordo per l’istituzione di uno stato palestinese. Ma non è Netanyahu l’ostacolo da parte israeliana. Si tratta della stragrande maggioranza degli israeliani, che possono essere o non essere elettori di Netanyahu ma di certo non intendono votare per chi si dice favorevole – in queste condizioni – alla soluzione dei due stati. Benny Gantz, descritto come un moderato, mantiene alto il suo punteggio nei sondaggi solo perché evita qualsiasi discorso sui due stati. Sa che se lo facesse, crollerebbe nei sondaggi più rapidamente di quanto impiegherebbe a pronunciare le parole “stato palestinese”.

Ma se si può perdonare alla squadra di Biden il fatto di non capire lo stato d’animo della popolazione israeliana, quello che non le si può perdonare è di credere che si possano far scomparire come per magia l’intransigenza e le intenzioni violente dei palestinesi impacchettando il loro ethos nazionale dentro un fittizio lessico occidentale. Non esiste nessuna Autorità Palestinese “rivitalizzata” perché non c’è nessuno che voglia “rivitalizzarla” in modo tale da renderla conforme alle tecniche di vendita del segretario di stato Antony Blinken. L’Autorità Palestinese “rivitalizzata” è una trovata troppo sciocca anche per un gruppo di auto-illusi progressisti affetti da narcisismo politico.

Israele è un paese forte, ma è anche un piccolo paese circondato da nemici. È importante che Israele sottolinei che c’è una differenza tra comportarsi bene e abbandonarsi alla follia. Possiamo permetterci di continuare ad arrancare con il peso dell’occupazione per un’altra generazione o due, fin quando si concretizzeranno molte cose al momento imprevedibili, che potrebbero rendere più o meno logica questa o quella soluzione. Ma non vivremo nemmeno fino a quel giorno se ci lasciamo sedurre ancora una volta dal canto delle sirene dei due stati.

(Da: Tablet, 13.2.24)