Per l’Assemblea Generale dell’Onu, Israele costituisce il 70% dei mali del mondo

Si tratta chiaramente di pregiudizio e discriminazione, e sarebbe saggio tenerne conto perché non cambierà tanto presto

Di Ben Lazarus

Ben Lazarus, autore di questo articolo

L’andamento delle votazioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è chiaro. Dal 2018 a oggi si conta un totale di 143 risoluzioni contro vari paesi del mondo: 99 riguardano Israele e 44 riguardano tutti gli altri paesi messi insieme. E la proporzione si ripropone uguale ogni anno. Come mai?

Professionalmente mi interesso di numeri e cifre. Può darsi che non sia l’argomento più appassionante sul piano visivo, ma restituisce un quadro fondamentale che domina la situazione politica e che può essere interpretato in due modi.

Opzione 1 – La spiegazione anti-israeliana: Israele è davvero estremamente malvagio. Nonostante sia una democrazia liberale e uno stato di diritto e comprenda solo lo 0,11% della popolazione mondiale, rispetto a tutti i paesi del mondo – tra cui Corea del Nord, Sudan, Repubblica del Congo, Iran, Siria, Russia e gli altri circa 64 regimi autoritari del pianeta – Israele è così malvagio da meritare che il 70% di tutte le risoluzioni del forum più importanti del mondo siano contro di esso.

Secondo questa spiegazione, Israele dovrebbe realmente toccare un livello di immoralità tale da collocare i suoi cittadini, me compreso, al di là di qualunque standard di ripugnanza: un’accusa che non mi sento di accettare.

% di votazioni all’Assemblea Generale dell’Onu su Israele rispetto alla somma del resto del mondo (ROW) dal 2018 al 2023. Grafico elaborato dall’autore su dati UN Watch (clicca per ingrandire)

Opzione 2- La spiegazione scettica: Israele viene preso di mira in modo specifico e sproporzionato per altre ragioni che non attengono alla sua presunta malvagità.

Ne suggerisco due: (1) Israele è un comodo parafulmine usato come diversione in modo compulsivo, oppure (2) entra in gioco un elemento di antisemitismo.

1. Un parafulmine politico. Guardare la condotta dell’Onu praticamente in tutte le sue configurazioni (tranne forse il Consiglio di Sicurezza, dove c’è il veto degli Stati Uniti) equivale a vedere qualcuno che ha un comportamento irrazionale compulsivo. È diventata una pratica standard concentrarsi su Israele in modo irragionevolmente sproporzionato (si veda il grafico).

Nella cultura politica contemporanea appare impossibile incolpare il mondo in via di sviluppo per i suoi crimini a causa dell’ingiusto passato coloniale e, naturalmente, dei numeri che nei forum mondiali sono a favore dei paesi in via di sviluppo. D’altra parte, il mondo non ama mettere sotto accusa le grandi nazioni del mondo sviluppato da cui dipende per finanziamenti e aiuti (sia i singoli paesi che le stesse Nazioni Unite). Di qui la necessità di prendersela con qualcuno che non appartenga a nessuna di quelle due sfere (un simbolo del mondo sviluppato senza averne il potere). Ed ecco che torna comodo Israele, un piccolo stato democratico, isolato, collocato in un “quartiere sbagliato”. Israele è un diversivo estremamente conveniente.

Aggiungerei che, per l’istituzione internazionale, questo atteggiamento è ormai così radicato da diventare de facto una routine tanto automatica da accecare l’istituzione stessa. Un esempio recente è l’intervista rilasciata da Martin Griffiths a Sky News, che ne ha così riferito:

«“Gaza è la peggiore crisi umanitaria che abbia mai visto negli ultimi 50 anni”. Lo afferma il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari Martin Griffiths, secondo il quale si tratta di cose peggiori delle “scene terribili” a cui ha assistito durante la guerra civile in Siria alcuni anni fa e peggiori degli “orrori” dei Khmer Rossi in Cambogia negli anni ’70”».

Detesto le iperboli, ma paragonare la situazione di Gaza alla guerra civile siriana e ai Khmer Rossi è pura follia. Il genocidio cambogiano, tanto per dire, fu la persecuzione sistematica e l’uccisione di cittadini cambogiani da parte dei Khmer Rossi sotto la guida del segretario generale del Partito Comunista di Kampuchea, Pol Pot. Il risultato fu la morte tra il 1975 e il 1979 di un numero compreso tra 1,5 e 2 milioni di persone, quasi un quarto dell’interna popolazione della Cambogia nel 1975.

La situazione a Gaza è certamente tragica ma, primo, non assomiglia nemmeno lontanamente al genocidio cambogiano, basta ricordare le cifre di cui sopra; secondo, non si tratta di nessuna forma di persecuzione o uccisione sistematica: è il tragico risultato dell’uso cinico di scudi umani da parte di Hamas e del diritto di Israele all’autodifesa. Per inciso, nella stessa intervista Martin Griffiths ha affermato che “Hamas per noi non è un gruppo terroristico, come sapete, ma un movimento politico”.

Evidentemente la narrazione secondo cui Israele è più pericoloso di qualsiasi altro paese (e di tutti gli altri paesi messi insieme) è orami incisa nel DNA delle Nazioni Unite.

2. Un elemento di antisemitismo. È interessante notare che nell’agosto 2023 – due mesi prima del 7 ottobre – l’autorevole storica Deborah Lipstadt, oggi inviata speciale degli Stati Uniti sull’antisemitismo, pubblicava le seguenti considerazioni:

«Le Nazioni Unite si trovano in una posizione unica per svolgere un ruolo significativo negli sforzi per combattere l’antisemitismo nel mondo e per incoraggiare tali sforzi come parte della sua più ampia missione di promuovere la pace globale e la protezione dei diritti umani universali per ogni persona.

Siamo tutti dolorosamente consapevoli che degli stati membri e altri soggetti delle Nazioni Unite esprimono commenti antisemiti, contribuiscono alla negazione della Shoah e distorcono o negano l’esistenza di Israele. Questi commenti riflettono uno storico e increscioso pregiudizio contro il popolo ebraico e, quando si verificano, gli Stati Uniti non esitano a definirli antisemiti.

Talvolta in passato le azioni delle Nazioni Unite hanno avuto l’effetto di alimentare atteggiamenti antisemiti nei confronti degli ebrei. In particolare, la risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottata nel 1975, che l’ex segretario generale Kofi Annan ebbe a definire un “punto infimo”, avallava lo stereotipo “sionismo uguale razzismo”. Con un passo atteso per troppo tempo, l’Assemblea Generale revocò quella risoluzione nel 1991.

Ad oggi, Israele è spesso oggetto di un’attenzione sproporzionata e unilaterale da parte degli organismi intergovernativi delle Nazioni Unite rispetto ad altri attori e casi degni di preoccupazione globale. Naturalmente non tutte le critiche rivolte allo stato di Israele sono antisemite. Israele è soggetto a critiche esattamente come qualsiasi altro paese. Ma quando tali critiche si basano su un doppio standard, mirano a delegittimare l’esistenza stessa dello stato di Israele o in altro modo oltrepassano il limite dell’antisemitismo, gli Stati Uniti le respingono.

Nella lotta contro l’antisemitismo, sottolineiamo che l’antisemitismo non è dannoso solo per gli ebrei ma anche per l’insieme delle società in cui l’antisemitismo va fuori controllo, indipendentemente dal fatto che in tali società vi siano o meno consistenti comunità ebraiche. Sottolineiamo che l’antisemitismo, come altre forme di odio, costituisce una minaccia per le società alimentando teorie complottiste e compromettendo la capacità dei cittadini e dei funzionari pubblici di prendere decisioni logiche e informate, cosa fondamentale per uno sviluppo sano e una governance efficace.

… Alle Nazioni Unite, che nel dicembre [2023] celebrano il 75esimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, intolleranza e discriminazione non devono avere posto. È responsabilità delle Nazioni Unite garantire che il proprio personale sia consapevole dei rischi dell’antisemitismo, che sia in grado di riconoscerlo e che reagisca in modo efficace quando si verifica.

Le Nazioni Unite sono state fondate come risposta diretta agli effetti devastanti della Shoah. L’esistenza stessa delle Nazioni Unite funge da costante promemoria: un promemoria della necessità di respingere l’odio motivato dall’identità di una persona, delle catastrofi internazionali a cui può portare l’odio incontrollato e dell’imperativo da noi condiviso di promuovere la tolleranza e sostenere i diritti umani e la dignità di tutti».

In conclusione, come accade per la maggior parte delle cose nella vita è probabile che una combinazione di diversi fattori sia ciò che determina lo stato delle cose . Ma i punti chiave che desidero sottolineare sono:

1. I dati statistici dimostrano che l’Onu è costantemente ingiusta nei confronti di Israele

2. Questo non accade perché Israele è il Male, ma per un insieme di altre ragioni assai più prosaiche.

Il che è un vero peccato per Israele e per il resto del mondo. Ma è qualcosa di intrinseco, quindi non aspettiamoci che cambi tanto presto.

(Da: Times of Israel, 19.2.24)

 

Una guerra dimenticata: Siria, 13 anni dopo
di Marta Serafini

I dati parlano di mezzo milione di vittime, 20 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case, rifugiati all’estero o sfollati in casa. La situazione umanitaria, ulteriormente aggravata dal terribile terremoto che ha colpito Turchia e Siria nel febbraio dell’anno scorso, resta disastrosa secondo le Nazioni Unite: 16,7 milioni di persone hanno «bisogno di assistenza umanitaria». Le sanzioni occidentali, assieme alla distruzione delle infrastrutture, hanno aggravato una già grave crisi economica, con il 90% della popolazione che — secondo l’Onu — vive al di sotto della soglia di povertà.

Nonostante questo quadro e le tensioni regionali alimentate dal conflitto tra Hamas e Israele, il regime di Bashar Assad, alleato di Mosca e Teheran, pare saldo al potere, soprattutto dopo il sisma che ha permesso a Damasco di ottenere l’allentamento delle sanzioni. Da un anno, inoltre, la Lega Araba ha riammesso la Siria dopo una sospensione durata quasi un decennio. Allo stato attuale la Siria nord occidentale resta sotto controllo delle milizie jihadiste sostenute da Ankara, quella nord orientale è sotto amministrazione curda, mentre nel resto del Paese rimane la presenza militare statunitense, quella russa e delle milizie libanesi di Hezbollah.

Un’altra guerra dimenticata: il Sudan tra sangue e fame
di Michele Farina

Nei prossimi giorni il segretario generale dell’Onu António Guterres manderà per la prima volta al Consiglio di Sicurezza un alert (in gergo una «white note») per attirare l’attenzione dei Grandi sull’emergenza umanitaria legata alla guerra in Sudan. Come se fosse una novità: ad aprile il conflitto che devasta il secondo Paese più vasto dell’Africa compie un anno.

Trenta milioni di abitanti su 45 non hanno abbastanza da mangiare. Gli ospedali sono al collasso. Gli aiuti sono bloccati ai confini del Chad. I combattimenti tra i governativi guidati dal generale al-Burhan e le Forze di supporto rapido del generale Dagalo detto Hemeti hanno prodotto un’emergenza alimentare senza precedenti. I due ex alleati (insieme nel 2021 avevano fatto un golpe per bloccare il processo democratico seguito alla defenestrazione del dittatore al-Bashir) si sono giurati scontro eterno.

Falliti i tentativi di mediazione americani-sauditi. I miliziani di Hemeti sono armati e finanziati dagli Emirati Arabi (sotto gli occhi benevoli dei russi) e l’esercito sudanese è appoggiato da Egitto e Turchia. Hemeti ha fatto progressi (ed eccidi) in Darfur, dove già si era distinto vent’anni fa per i massacri degli arabi Janjaweed contro le popolazioni africane, e controllano buona parte della capitale Khartoum. I governativi (che hanno spostato il quartier generale a Port Sudan) bombardano dal cielo. E in queste settimane hanno cominciato a bloccare i (pochi) aiuti umanitari diretti nelle zone sotto il controllo dei ribelli.

Con la risoluzione 2724 dell’8 marzo il Consiglio di Sicurezza ha chiesto l’immediato cessate il fuoco in Sudan. Gli interessati se ne fregano. Giustamente l’ong Human Rights Watch chiede l’adozione di sanzioni contro gli individui che bloccano gli aiuti diretti alla popolazione. Leader in testa. Decine di persone sono già morte per la malnutrizione. E da aprile a luglio da quelle parti è «stagione vuota», quella dove si sono esaurite le scorte e ancora si aspetta il nuovo raccolto.

(Da: Corriere della Sera – Edizione Digitale, 15.3.24)