Benny Barbash

image_1213Benny Barbash è nato a Beer Sheva nel 1951. Poeta, scrittore e sceneggiatore: il film Beyond the Walls, di cui ha scritto la sceneggiatura, ha vinto il premio della critica al festival di Venezia nel 1984 ed è stato candidato agli Oscar come miglior film straniero. “Il mio primo Sony” è il suo primo libro pubblicato in Italia.

IL MIO PRIMO SONY
Yotam, 10 anni, vive attaccato al suo registratore “come a una flebo”. Registra sistematicamente la vita degli adulti che lo circondano: debolezze, ipocrisie, sottili crudeltà. Partendo dai nastri registrati, indaga, con un grande desiderio di capire e di amare, le dinamiche che lacerano la sua famiglia, narrandoci con toni commoventi e a tratti esilaranti non solo la storia della sua infanzia ma anche quella di Israele, con tutto il suo fascino e le sue contraddizioni.

IL BRANO letto al Convegno dell’Università di Milano
In macchina chiesi al babbo che m’indicasse la Linea Verde quando l’avremmo attraversata, questa benedetta linea che provocava così tante discussioni nella nostra famiglia. Un poco dopo Kfar Saba il babbo fermò la macchina e indicando davanti a noi disse a me e a Shauli: la Linea Verde passa di qua e il nonno, che dal momento in cui era entrato in macchina fino a quando non ci fermammo per vederla non aveva smesso un attimo di lagnarsi di come la mamma si era di nuovo rifiutata di venire con noi, e che bell’acquisto per la famiglia una tale sinistroide, che una volta era stata perfino fermata e messa dentro per avere dimostrato contro i nostri soldati, e che razza di educazione rice-vevano i suoi nipoti in una casa governata da una cultura di totale anarchia politica, il nonno corresse il babbo e disse che la Linea Verde non passa qui, caro mio, passava qui! E aveva ragione perché Shauli e io in effetti non vedevamo alcuna linea e il babbo disse: passa, passava, la cosa importante è che passerà qui di nuovo e, il prossimo anno, quando andremo ad Ariel per il quattordicesimo compleanno d’Itamar, speriamo che ci sia sulla strada un punto di controllo dei passaporti, con la bandiera dell’OLP che ci sventola sopra e che Arafat sia il primo ministro dello Stato palestinese.
Quando il babbo finì questa frase ci fu un silenzio di tomba nella macchina e subito dopo il nonno disse calmo al babbo: per favore esci dalla macchina o ritira subito ciò che hai detto, e la nonna disse: dici sul serio, Zvi? Faremo tardi per il bar-mitzvà, e il nonno disse: ci sono in ballo cose più importanti di un bar-mitzvà, ma la nonna disse che per lei non c’era niente di più importante dei compleanni dei suoi nipoti, ma il nonno non le dette ascolto, perché stava facendo un respiro profondo per dare modo a tutta la furia che si era accumulata in lui di organizzarsi e venire fuori dalla sua bocca sotto forma di strilli e urla, e una vena sulla sua fronte iniziò a palpitare convulsamente, che è un segnale preoccupante per lui, e disse alla nonna: digli che nella mia macchina – eravamo nella sua macchina perché la nostra poteva a malapena raggiungere le colline di Ramat Gan – non si parla in questo modo, e la nonna gli disse: diglielo tu, sei seduto accanto a lui, e il nonno: Miriam, ti sto chiedendo un piccolo, un piccolo, un piccolo… E la nonna disse: Zvi, ti sta ascoltando. Lo stai ascoltando, vero, Assi? E, per dimostrare al nonno che la nonna aveva ragione, il babbo chiese: com’è che non si parla? E il nonno rimase talmente sorpreso dalla domanda che tirò fuori il fazzoletto, si soffiò il naso e se lo rimise in tasca; accese la radio e poi la spense e, per un attimo, pensammo che era così confuso da aver dimenticato che era nel mezzo di una discussione, ma ci pensò il babbo a ricordarglielo: ancora non mi hai detto com’è che non si parla nella tua macchina; e il nonno disse: non si deve nemmeno menzionare uno Stato palestinese con a capo quell’assassino di Arafat; e il babbo disse che Begin, che era un terrorista, era diventato anche lui primo ministro, e il nonno: così Begin era un terrorista? E il babbo: proprio così; e il nonno di nuovo: un terrorista, vero? E il babbo di nuovo: sì. Continuarono così per circa cinque volte, ogni volta a voce più alta, poi passarono alla domanda successiva che regolarmente si ripresentava in queste discussioni, quando il nonno dice: stai per caso paragonando Begin ad Arafat? E il babbo rispondeva di sì anche a questa domanda. Il nonno allora cambiava l’ordine delle parole e gli chiedeva se stesse paragonando Arafat a Begin, e il babbo a rispondergli che si trattava della stessa domanda, ma il nonno urlava: non cercare di fare il furbo! Rispondi soltanto: sì o no? E il babbo rispondeva di sì; allora il nonno cominciava con le sue lunghe frasi urlate, che iniziano a voce bassa, con i polmoni pieni d’aria, e terminano con urla stridule e la sua faccia congestionata e la saliva che spruzza in tutte le direzioni, perché non ha aria sufficiente nei polmoni per pronunciare frasi come: come puoi paragonare Begin, il più grande combattente per la libertà che il popolo ebraico abbia mai conosciuto dai tempi di Bar Kochbà, a quell’emerito assassino con quella barbaccia incolta, le cui mani sono lorde del sangue dei bambini, rispondi solo a questo se non ti dispiace! E il babbo rispondeva che il paragone era facile, perché la cosa era lampante, allora il nonno scuoteva, disperato, la testa a destra e a manca e ripeteva con sarcasmo le ultime parole del babbo, «è lampante», e poi taceva, poi le ripeteva di nuovo e dopo cominciava a parlare di come non ce la facesse più. Proprio non ce la faceva più. Aveva vissuto la sua vita inutilmente. I suoi ideali e le sue convinzioni si erano infrante contro le rocce del cinismo di un figlio e la mistica dell’altro; e il babbo disse: per fortuna che c’è Adam, e il nonno tirò un sospiro e sussurrò: tu non capisci di cosa sto parlando, e iniziò a spiegare che due squarci stavano mandando in pezzi la famiglia: Nimrod che aveva cambiato nome e si era affossato in un mondo dal quale lui era fuggito, e il babbo, che aveva attraversato il confine per disertare in campo nemico. Ascoltavamo tutti, in silenzio, le tristi parole del nonno ma il babbo, che era in uno dei suoi stati d’animo sadici, disse che si rifiutava di chiedere scusa, e il nonno sospirò e disse che, se soltanto fosse stato più giovane, e il babbo un po’ più piccolo, lo avrebbe sculacciato come quella volta che lo aveva sorpreso in chiesa, e iniziò a urlare e a sputacchiare di nuovo, e il babbo di nuovo a rispondergli per le rime e a chiamarlo pazzo fanatico, e disse che se il suo Dio, Jabotinsky, fosse stato in vita in quel momento, avrebbe militato in Pace Adesso; e, prima che il nonno potesse rispondere, la nonna suggerì di fermarsi sul lato della strada, così che il nonno potesse uscire fuori a respirare un po’ d’aria fresca, che è il rimedio della nonna a molte malattie […].
Il babbo fermò la macchina, il nonno aprì lentamente la portiera e Shaul mi bisbigliò nell’orecchio che stava per dire: Jabotinsky in Pace Adesso. Che bestemmia. Ed è proprio quello che disse il nonno, ruotò un po’ su se stesso e si aiutò con le mani per tirare fuori le gambe dalla macchina; solo quando i suoi piedi furono tutti e due saldi sul terreno si chinò in avanti e si issò su dalla macchina, che è l’unico modo in cui gli anziani riescono ad uscire dalle macchine moderne, che sono progettate da giovani per gente giovane; la nonna gli passò il bastone attraverso il finestrino e lui si allontanò a passi lenti; quando fu abbastanza lontano, la nonna disse al babbo: dovresti vergognarti. Non vedi che non è più un ragazzino? Perché lo fai uscire dai gangheri di proposito? Vuoi che gli prenda un altro infarto? Questa era la maniera della nonna per calmare chiunque ce l’avesse con il nonno, perché alcuni anni fa lui ha avuto un «episodio», che è il nome che hanno dato al suo infarto, e il babbo le ha detto: allora che la smetta di parlare in quel modo di Alma, riferendosi a quello che il nonno aveva detto prima del litigio, e la nonna disse: senti chi parla, riferendosi a tutti i problemi che il babbo procura alla mamma, poi uscì dalla macchina e andò dal nonno, che se ne stava sotto un olivo, ma non riuscimmo a sentire che cosa si dicevano, attraverso il finestrino della macchina riuscimmo soltanto a vedere lei che gli metteva una mano sulla spalla, lui che se la scrollava di dosso e si allontanava di alcuni passi, lei che si avvicinava da dietro e metteva la mano sull’altra spalla, allora lui si voltò e le disse qualcosa con il volto eccitato e le mani che si agitavano per aria, facendo cenno soprattutto verso di noi; lei gli rispose calma e indicò la direzione opposta. Ci voltammo tutti per vedere cosa stesse indicando e vedemmo il sole che tramontava sul mare, poi guardammo di nuovo in direzione del nonno e della nonna: se ne stavano lì, abbracciati, la testa calva di lui nascosta dalla splendida chioma della nonna, e sembravano più antichi dell’olivo che stava dietro di loro, più antichi della terra ai loro piedi, ed io ebbi una sensazione di separazione, e sono sicuro che la provò anche il babbo perché lo guardai e vidi che i suoi occhi erano umidi; il babbo, allora, uscì dalla macchina e andò verso di loro e, a giudicare dalle sue spalle curve e dal modo in cui muoveva le mani, si stava chiaramente scusando, e allora Shaul mi disse: riesci a credere che tutto questo è accaduto per una stupida linea verde che nemmeno si vede? È una linea immaginaria come la latitudine o la longitudine, o l’Equatore che il babbo andò a cercare nel suo viaggio verso l’Argentina, ed era così occupato a cercarlo che si dimenticò di andare a vedere la parata e il personale di bordo mascherato da tritoni e sirene nella piscina della nave. Se ne stette all’estremità del ponte della nave con il binocolo da teatro della nonna, alla ricerca della linea dell’equatore finché il sole fu tramontato e venne l’oscurità e, forse, questo è uno dei grossi problemi che ci sono tra i bambini e gli adulti: loro parlano di cose che non possono vedere, e tra loro e noi c’è una linea di confine immaginaria e chiunque l’attraversi smette di essere una cosa ed inizia ad esserne un’altra.

Il COMMENTO di Benny Barbash
Durante gli incontri coi lettori ci sono alcune domande che ritornano con una certa frequenza. Come hai deciso di cosa scrivere? Come inizi a scrivere? Ci sono elementi autobiografici nel libro? Invece di aspettare queste domande alla fine dell’incontro procederò col rispondervi in anticipo, per risparmiare ai miei egregi ospiti l’incombenza di chiedere.
Ai miei studenti, io insegno sceneggiatura, spiego che nella scrittura esistono tre problemi fondamentali. Il primo, come iniziare; il secondo, come finire; il terzo, forse il più il delicato, con cosa accidenti si riempie lo spazio tra l’inizio e la fine. Se hai ben risposto a queste tre domande allora hai un buon racconto.
Allora come si inizia?
Quanto più accumulo tentativi tanto più la risposta si fa evasiva. Ogni sceneggiatura o racconto nuovo che scrivo mi risulta più difficile dei precedenti; durante gli anni, tuttavia, ho imparato a non esercitare troppe pressioni su me stesso e ad aspettare con pazienza finché qualcosa non accade e genera questo strano processo all’interno del quale, in ogni caso, la tua autorità è limitata agli ultimi passaggi.
Il libro “Il primo Sony”, ad esempio, è nato in maniera del tutto casuale, senza alcuna intenzione. Nel periodo in cui è nata la storia ero convalescente per un incidente di motocicletta. Ero bloccato in casa, impedito nelle mie azioni e immerso in una nera amarezza. Per ore me ne stavo seduto davanti al computer e giocavo con giochi primitivi, come Pacman e Tetris, che mi facevano sprofondare in un stato catatonico.
La mia compagna, mio fratello, e i miei genitori cominciavano a manifestare segni di preoccupazione e alla fine mi suggerirono di provare a scrivere un racconto per i miei due figli (che allora erano ancora piuttosto piccoli). La soluzione di spostare lo sforzo della scrittura da una tipologia a un’altra di racconto è abbastanza limitata; anche se si cambia il target dei lettori, le tre domande – come si comincia, come si continua e come si finisce – rimangono fisse sulla loro base. Ma ho avuto fortuna e mi è accaduto un piccolo miracolo.
Durante uno Shabbat, mentre eravamo seduti a consumare la colazione festiva, piluccavo senza appetito delle olive, quando all’improvviso il nocciolo di una di esse mi si piantò in gola. Sono quasi soffocato e se la mia compagna non fosse balzata su di me battendomi con forza sulla schiena finché il nocciolo non è uscito fuori, forse questo nostro incontro sarebbe stato privo di me e di voi.
In ogni caso la trachea fu liberata e il respiro tornò al mio naso. Quella stessa notte mi svegliai per la gioia della scoperta. Mi avvicinai allo scrittoio e cominciai a occuparmi delle differenti ipotesi relative alle possibilità nascoste in un nocciolo di oliva piantato nella gola. Dove si può nascondere nel corpo se non scende nello stomaco e non viene espulso attraverso la bocca? Riflettei.
L’indomani già raccontai questa storia ai miei figli: il racconto di un papà cui un nocciolo di oliva si era piantato nella gola ed era quasi soffocato. Contrariamente a me, quell’uomo non espelle il nocciolo. Lui e i suoi amici ritengono che il nocciolo sia stato inghiottito e che forse abbia fatto il proprio percorso verso lo stomaco e da esso per vie non manifeste fuori dal corpo, ma è probabile che questa considerazione sia sbagliata. In maniera misteriosa il piccolo nocciolo era riuscito a sistemarsi in una delle cavità nasali.
Alcune settimane dopo, mentre si radeva davanti allo specchio, il protagonista del racconto, chiamiamolo Assaf, si accorse con particolare sorpresa che dal suo orecchio spuntavano le foglie tenere e verdi di un ulivo. Tenta di staccarle, ma si accorge che sono già radicate dentro la coclea e tirarle gli procura un forte dolore.
Il tenero virgulto crebbe e cominciò a destare una reale preoccupazione. Assaf e sua moglie Alma corsero da specialisti in otorinolaringoiatria che spalancarono gli occhi meravigliati di fronte a questo fenomeno, sollevando le spalle impotenti. La coppia, preoccupata, se ne andò quindi in Galilea per incontrare un noto specialista nella coltivazione degli ulivi, il quale ammise che non era la prima volta che incontrava un fenomeno simile e concluse che se “l’albero ha imparato a germogliare dal tuo orecchio forse è perché tu imparassi a vivere con l’albero…”
L’albero continuava a svilupparsi. Il suo tronco si solidificò. I suoi rami si intrecciavano e il suo grande peso faceva piegare il corpo di Assaf su un lato. Un giorno la famiglia allargata partì per una gita con picnic a Giuda e Shomron; mentre tutti si immergevano nella preparazione del pasto, Assaf, stanco per il peso dell’albero che trascinava con il suo orecchio, si mise a riposare. Posò il lato libero del volto sulla terra e si addormentò.
Trascorsa qualche ora, la famiglia, ormai organizzata per il viaggio, lo svegliò, ma quando volle sollevare la sua testa sulla terra si spaventò, accorgendosi che non poteva muoverla.
Probabilmente durante l’ora in cui aveva dormito l’albero aveva allungato le sue radici e le aveva fatte penetrare nella terra attraverso l’orecchio che aveva appoggiato al suolo. Così Assaf si trovò unito al sacro suolo natale.
Attorno a lui si sollevò una grande confusione. I membri della famiglia allargata e altri turisti si raccolsero attorno all’ulivo che era spuntato tra Assaf e la terra e davano diversi consigli. Uno diceva che bisognava sradicarlo, un altro si mise in mezzo e gli ricordò che si trovavano in una zona naturalistica protetta. Un terzo diceva di fondare una colonia attorno al portento botanico e trasformare Assaf in un simbolo di attaccamento eroico alla terra dei Padri, ma un quarto obiettò che si trattava di una brutta manipolazione colonialistica.
Questo è il momento in cui all’improvviso ho identificato all’interno del gruppo che presiedeva le discussioni Yotam, il bambino col Sony, figlio di Assaf, mentre guardava gli eventi e registrava le voci. Questo bambino sensibile, perspicace, curioso si dipinse a me con grande chiarezza all’interno di questa confusione così israeliana. E anche gli altri membri della famiglia che presiedevano con passione la discussione senza senso cominciarono a coprirsi di pelle e tendini. Mi ritrovai sempre più immerso nella ricerca dei legami tra i membri della famiglia e gradualmente cominciai ad abbandonare il racconto dell’ulivo.
Chi legge il libro con attenzione incontra il residuo modificato di un racconto per bambini, nascosto tra le sue prime pagine. In molti sensi questa favola ha fatto spuntare il libro come il nocciolo d’oliva ha fatto spuntare l’albero.
Nella grande domanda che nasce da questo piccolo racconto è in qualche misura racchiusa la risposta riguardo a come si scrive un racconto. Non sono sicuro. Forse per scrivere un racconto ci vuole il nocciolo di un racconto, ma in questo modo nasce la domanda riguardo a come si crea il nocciolo, il nucleo di un racconto. Forse per questo ci vuole il nucleolo di un racconto, cosa che mi fa ricordare un aneddoto famoso su Bertrand Russell.
Durante una conferenza in cui aveva spiegato in maniera particolareggiata come la terra gira attorno al sole e come lo stesso sole traccia un cerchio attorno al centro della nostra galassia, si alzò una vecchia signora in una delle ultime file nella sala, chiarendo allo scienziato che tutto ciò che aveva spiegato fino a quel momento era una grande stupidaggine. “Il mondo…” gli ha spiegato “è una tavola piatta sulla schiena di una tartaruga gigante”.
“E su cosa poggia la tartaruga…” le chiese lo scienziato con un grande sorriso.
“Che vuol dire su cosa poggia la tartaruga? Sta sulla tartaruga più grande…”
“E su cosa poggia la seconda tartaruga?” insistette Russell
“Si sta prendendo gioco di me…?” si offese l’anziana signora “ci sono tartarughe che stanno l’una sull’altra lungo tutto il percorso verso il basso…”
Lo stesso, a quanto pare, capita coi racconti. Stanno uno sull’altro per tutto il cammino verso il basso, ma cosa succede là, in basso?

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