L’unica via d’uscita è piegare Hamas

Se Israele cedesse alle pressioni internazionali sarebbe il trionfo di Hamas, la fine di ogni prospettiva a due stati, altri 7 ottobre contro lo stato ebraico, la guerra perenne

Di Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy, autore di questo articolo

Immaginiamo che, incalzato da un Biden a sua volta assillato da un elettorato che gli rimprovera il sostegno a uno stato “genocida”, Israele rinunci a entrare a Rafah per stanare i tre battaglioni sopravvissuti di Hamas. Supponiamo che Israele accetti il cessate-il-fuoco totale, a tempo indeterminato, che un’amministrazione americana intimorita dalla forte ascesa di un antisionismo sempre più rabbioso dice di auspicare. L’idea di un sostegno incondizionato a Israele da parte degli Stati Uniti è un mito che non ha vita facile, ma questo è il mito.

Il famoso veto sistematico alle risoluzioni sfavorevoli allo stato ebraico al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è, a dispetto di quello che si insinua, qualcosa di relativamente recente, che risale all’11 settembre 2001, quando furono loro stessi a essere colpiti dal terrorismo sulla loro pelle.

Ci si ricorda, nelle prime ore della guerra del Libano del 2006, l’ingiunzione al primo ministro dell’epoca di fermare la sua offensiva sulla riva del fiume Litani e di risparmiare, così facendo, quel che restava dei combattenti di Hezbollah.

La supposizione, dunque, non è insensata.

È l’ipotesi che sembra mantenere Chuck Shumer, leader della maggioranza democratica al Senato.

Si può tranquillamente immaginare un Israele stigmatizzato, osteggiato, impossibilitato ad agire contro Hamas come gli Stati Uniti stessi fecero, a suo tempo, con lo Stato islamico e al-Qaeda. Si comincia, insomma, a immaginare un Israele costretto alla sconfitta. Che cosa accadrebbe, in tal caso?

La scritta “dal fiume al mare” (=cancellazione dello stato ebraico) brevemente comparsa di recente, in arabo, sulla palazzina in Connollystrasse, a Monaco, dove alloggiava la delegazione di atleti israeliani massacrata durante le Olimpiadi del 1972. Se Israele cede, trionferà Hamas con il suo programma genocida

Naturalmente Hamas esulterebbe, canterebbe vittoria. Proprio sull’orlo della disfatta, si ritroverebbe pressoché risuscitata.

Quei criminali contro il genere umano che hanno giocato con la vita non soltanto dei 250 israeliani catturati il 7 ottobre, ma anche dei loro concittadini trasformati in scudi umani, uscirebbero dai tunnel trionfanti.

La piazza araba li considererebbe resistenti.

In Giordania, in Arabia, negli Emirati e in tutti i paesi firmatari degli Accordi di Abramo, o tentati di firmarli, godrebbero di un prestigio ancora più grande.

In Cisgiordania non meno che a Gaza, finirebbero con l’eclissare un’Autorità Palestinese corrotta e inefficiente che impallidirebbe davanti alla duplice aura del martirio e della resistenza di cui sarebbero rivestiti.

Hamas cambierebbe nome. Forse, invece, non se ne prenderebbe neanche la briga ed entrerebbe, così com’è, quantunque formalmente cambiata, nel grembo dell’Olp, di cui diventerebbe una delle entità.

Nessun calcolo, dunque, servirà a nulla. Nessuna strategia di stato maggiore o di cancelleria prevarrà di fronte alla legge ferrea dei popoli che diventano folle e delle folle che diventano branchi.

E nessuno dei piani mirabolanti predisposti da saggi e dotti, esperti e lungimiranti, l’uno una forza internazionale di interposizione, l’altro un’autorità araba ad interim, il terzo un governo di tecnocrati impegnati nella ricostruzione di Gaza, potrà avere peso alcuno davanti all’effetto dirompente creato dal ritorno in punto di morte di questo gruppo di criminali ammantato, istantaneamente, delle virtù più eroiche.

Sarà lui a dettare legge in Palestina. Sarà lui, a prescindere dalla forma che assumerà il nuovo potere, a definire la sua agenda ideologica e politica.

Non lo farebbe? Si atterrebbe a una prudenza e a una discrezione transitorie? Si farebbe addirittura dimenticare brevemente, perché Israele non tratterà mai con un’Autorità di cui fosse parte integrante?

Addio stato di Palestina. La formula dei due stati, che dichiarano di volere coloro che ci ripetono di continuo che “tutto questo deve finire”, slitterebbe a data non definita. Senza parlare degli “altri 7 ottobre” che, fin dai primi giorni, Yahya Sinouar ha giurato agli israeliani. Di sicuro, sarà la fine dei progetti di pace nutriti dai moderati delle due parti.

Ecco perché il mondo non ha scelta. Tutta l’energia che sta usando per cercare di piegare Israele, deve usarla per far piegare Hamas.

Tutto il tempo che l’amministrazione americana dedica a sterili negoziati con i qatarioti, esperti nel doppio gioco, dovrebbe dedicarlo a metterli alle strette, esigendo che siano proprio loro a mettere i capi “politici” di Hamas, di cui sono patrocinatori e ospiti, di fronte alle loro responsabilità.

E quelli che dicono di pregare affinché questa guerra finisca e che “il giorno dopo” venga il tempo della pace negoziata che noi tutti auspichiamo, devono sapere che per arrivare a quel punto c’è una strada da percorrere. Una sola.

La liberazione degli ostaggi, il presupposto di partenza.

L’evacuazione dei civili presenti nel futuro teatro dei combattimenti: quando decideremo di sentire cosa sta facendo Israele in merito a ciò, più di qualsiasi altro esercito costretto a una guerra dello stesso tipo?

E infine l’annientamento del potere di nuocere di quel che resta, a Rafah, di Hamas e dei suoi squadroni della morte: senza questa vittoria militare, la ruota eterna delle sventure ricomincerà a girare daccapo. È spaventoso, ma è la verità.

(Da: La Repubblica, 24.3.24)