Cosa occorre perché la pace sia possibile e non solo una pia illusione

Il campo per la pace è in ginocchio a causa dei rifiuti palestinesi e del 7 ottobre. Occorrono prove concrete che i palestinesi sono pronti a cancellare cento anni di indottrinamento all’odio e la fantasia malata di far scomparire Israele dalla faccia della terra

Di Romy Leibler

Romy Leibler, autore di questo articolo

Israele, giunto al suo 76esimo anno di vita, è sopravvissuto alle guerre e al terrorismo lanciati dai suoi vicini arabi e dai palestinesi. Dopo la cessazione di ogni guerra o scoppio di ostilità, c’era la perenne ricerca di una soluzione pacifica per risolvere, una volta per tutte, il conflitto tra Israele, i suoi vicini e i palestinesi.

Benché sia stata raggiunta la pace con Egitto e Giordania, gli ultimi due decenni hanno visto i palestinesi continuare a perseguire la distruzione di Israele mediante Hamas e Hezbollah dal Libano, entrambi aiutati e incoraggiati dall’Iran.

Indipendentemente da come finirà la guerra attuale, Israele sopravvivrà. Il mondo, guidato dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden, ha espresso chiaramente la determinazione di cercare, questa volta, di sfruttare la cessazione delle ostilità per dare vita a uno stato palestinese con l’obiettivo di porre fine al conflitto.

C’è da sperarci o è solo una fantasia?

Gli Accordi di Oslo furono il primo vero tentativo di forgiare una pace tra Israele e palestinesi. Dal 1993 al 2000 vennero infranti molti tabù legati al conflitto. L’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) non era più un’organizzazione terroristica, un soggetto con il quale gli israeliani non potevano avere alcun contatto. Dopotutto, per fare la pace bisogna negoziare con i nemici. L’obiettivo principale di Oslo era quello di stabilire un percorso verso una soluzione a due stati. Gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo erano ottimisti sul fatto che un giorno, non lontano, Israele avrebbe potuto finalmente vivere in pace.

Nonostante gli attentati suicidi del 1995/1996 e l’assassinio di Yitzhak Rabin, il sogno non venne abbandonato. L’assillante desiderio di pace venne perfettamente esemplificato dalla disponibilità del premier Ehud Barak, nei negoziati condotti nel 2000 e nel 2001 a Camp David e a Taba, di arrivare cedere ai palestinesi la sovranità sopra il Monte del Tempio. Concedere la divisione di Gerusalemme e la sovranità sul Monte del Tempio apparve a molti la violazione del massimo tabù. Come avrebbe potuto la nazione ebraica, dopo duemila anni di esilio, cedere la sovranità proprio sul Monte del Tempio? E tuttavia i sondaggi dell’epoca indicavano che la maggioranza degli israeliani era disposta a fare anche questa concessione se si fosse raggiunta una vera pace e la fine reale del conflitto con i palestinesi.

Elaborazione grafica della celebre immagine di Shiri Bibas che il 7 ottobre viene rapita e deportata a Gaza dai terroristi palestinesi mentre tiene in braccio i suoi figli di 9 mesi e 4 anni. Romy Leibler: “Il colpo finale al campo della pace è stato inferto il 7 ottobre”

Quello che accadde dopo il rifiuto di Yasser Arafat è noto a tutti. Il risultato fu l’esplosione della seconda intifada (l’intifada delle stragi suicide sugli autobus, nei bar, nelle discoteche ndr). Il sogno di Oslo era morto, anche se rendersene conto non fu un fatto immediato. La fine del “campo della pace” israeliano fu graduale. Sopravvisse a malapena alla seconda intifada, ricevette un nuovo impulso temporaneo con il ritiro dalla striscia di Gaza (2005), per poi subire una nuova drammatica frustrazione con il rifiuto di Abu Mazen della proposta di compromesso avanzata dal premier Ehud Olmert che cercava di andare persino oltre quella di Ehud Barak.

L’effetto devastante appare evidente osservando il calo dei voti a partito Laburista e Meretz negli ultimi vent’anni. Nella 15esima Knesset eletta nel 1999, il partito Laburista aveva 26 seggi, il Meretz ne aveva 10 e c’erano altri due partiti di centro-centrosinistra che contavano 12 seggi. Saltiamo alle ultime elezioni e troviamo il partito Laburista a malapena ancora vivo con cinque miseri seggi, mentre il Meretz non ha nemmeno superato il quorum d’ingresso alla Knesset.

Il colpo finale al “campo della pace” è stato inferto il 7 ottobre. Per tragica ironia, molte delle vittime assassinate, torturate, stuprate e rapite quel giorno nei kibbutz e moshav aggrediti erano note per essere forti sostenitori del campo della pace.

Ciò che la maggior parte degli israeliani ha imparato a proprie spese negli ultimi due decenni è che, per quanto anelino alla pace, non trovano alcun valido interlocutore sul versante palestinese: che sia attraverso il prisma della Carta costitutiva di Hamas che chiede la distruzione dello stato ebraico e l’uccisione di tutti gli ebrei, o attraverso il prisma della corrotta Autorità Palestinese che ha rifiutato ogni offerta di pace avanzata nel corso degli anni e non ha mai abbandonato la pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno” dei profughi (e loro discendenti), né ha mai accettato che Israele sia lo stato nazionale del popolo ebraico. Per non parlare del loro subdolo sostegno alla politica “pagati per uccidere” che premia economicamente gli assassini di ebrei e dei loro programmi scolastici che rifiutano Israele, disumanizzano gli ebrei e glorificano il terrorismo.

Ciononostante il mondo occidentale, guidato dalle successive amministrazioni americane, ha costantemente tentato di imporre a israeliani e palestinesi la soluzione a due stati. Quante volte gli esperti hanno affermato che l’unica soluzione è il ritorno alle linee del 1967 con qualche aggiustamento e scambio di territorio? Purtroppo non riescono a comprendere che il conflitto non riguarda una disputa territoriale quanto piuttosto il rifiuto da parte dei palestinesi di accettare il diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro patria ancestrale.

Il “campo della pace” in Israele è in ginocchio, ma non completamente fuori giuoco. Se, per qualche miracolo, i palestinesi riuscissero a convincere l’opinione pubblica israeliana che anche loro credono sinceramente nella pace e nella coesistenza, assisteremmo a una spettacolare rinascita del campo della pace. Ma proprio qui sta il problema. Non esiste un equivalente campo della pace all’interno della società palestinese. Ci sono stati invece, e ben evidenti, cento anni di violento rifiuto di qualsiasi idea di sovranità ebraica, in tutto o in una parte di ciò che oggi costituisce Israele.

Manifestazione anti-Israele a Bruxelles. Sul cartello: “Palestina libera dal fiume al mare”. Romy Leibler: “I palestinesi devono abbandonare la fantasia irrealistica e malata di far scomparire Israele dalla faccia della terra”

Americani ed europei si illudono pensando che una soluzione a due stati sia oggi fattibile, soprattutto dopo gli eventi del 7 ottobre, un attacco che ha chiaramente illustrato l’intento genocida di Hamas raccogliendo il sostegno di oltre il 70% dei palestinesi che vivono a Gaza e l’80% di quelli in Cisgiordania (e delle manifestazioni palestinesi in tutte le principali città del mondo ndr). Quindi, si sente parlare di stabilire almeno un percorso verso una soluzione a due stati.

Ma come si crea un simile “percorso”? Sono in grado i palestinesi di invertire decenni di indottrinamento con cui negano che gli ebrei abbiano alcun legame, né che siano originari della Terra di Israele? Sono in grado di accettare che il “diritto al ritorno” dei profughi (e loro discendenti), una “promessa” che non è stata mai applicata in nessun altro conflitto, è una ricetta per il fallimento? Sono pronti a rinunciare davvero alla violenza e al terrorismo e a creare autentiche istituzioni per autogovernarsi? Abbandoneranno il sogno che Israele possa essere distrutto? Esiste una leva emergente di dirigenti tra i palestinesi disposti a sostenere la pace? Potrebbe una leva del genere emergere e rimpiazzare i capi attuali?

Il mondo occidentale, se vuole avere qualche reale possibilità di successo, invece di esercitare pressioni su Israele dovrebbe prendere di mira l’attore maligno che persegue l’obiettivo di annientare di Israele con il sostegno a Hamas e la creazione e il riarmo di Hezbollah, vale a dire l’Iran.

Israele è attualmente governato dal governo di destra più estremo della sua storia, in seguito all’alleanza di Benjamin Netanyahu con Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. È un governo vituperato da molti nel mondo occidentale e che ha una bella quota di oppositori e detrattori all’interno del paese. Ma quando Netanyahu si oppone alle pressioni del mondo e avverte che uno stato palestinese in Cisgiordania, nel contesto odierno, si tradurrebbe in una replica di Gaza mettendo l’intero paese in pericolo, ha il consenso della stragrande maggioranza degli israeliani. E qualsiasi futuro governo israeliano, sia esso guidato da Benny Gantz o Yair Lapid, condividerebbe questo punto di vista.

Quindi, quando il mondo medita sul giorno dopo la guerra, dovrebbe concentrare i propri sforzi su come riabilitare i palestinesi in modo analogo a come la Germania fu denazificata e il Giappone smilitarizzato, e come furono trasformati in società che in massima parte ripudiano i crimini contro l’umanità commessi dai loro predecessori che scaraventarono i rispettivi paesi nella guerra, nella distruzione e nell’assassinio di milioni di innocenti sulla base di ideologie che avevano indottrinato i loro popoli. Gli israeliani non si fanno la minima illusione e sanno che Hamas, se avesse i mezzi, farebbe loro esattamente quello che fecero i nazisti.

La pace non può essere imposta. Può avere successo solo quando c’è un autentico sostegno dal basso che provenga da entrambe le parti, disposte a riconoscere reciprocamente i rispettivi diritti a vivere in pace, dignità e sicurezza. Nel caso degli israeliani, essi hanno bisogno di vedere prove concrete di un autentico desiderio da parte palestinese di accettare Israele come legittima patria del popolo ebraico. I palestinesi devono cancellare cento anni di rifiuto, di odio e la loro fantasia irrealistica e malata di veder scomparire Israele dalla faccia della terra.

(Da: Jerusalem Post, 2.2.24)