Israele, così gli artisti rispondono alla guerra

Correndo sul web in tutte le direzioni, le opere compongono un nuovo patrimonio iconico, strumenti in cui tutti possano riconoscersi

Di Marcello Ragazzi

Zoya Cherkassky, “Donne rapite”, ottobre 2023

Se è vero che il legame diretto tra realtà ed espressione artistica ha da sempre caratterizzato larga parte della cultura israeliana, gli artisti hanno risposto agli eventi drammatici del conflitto in corso con una reazione emozionale diretta, che testimonia un’inconscia vocazione ad elaborare un trauma collettivo.

Lo spazio di libertà di cui dispone il linguaggio dell’arte consente di farne il luogo in cui estrinsecare e comprendere una dimensione interiore, lenire un dolore; ora, però, il piano dei contenuti sembra ribaltarsi verso il fruitore, col fine persino terapeutico di metabolizzare quanto accade.

Da un approccio più cripticamente concettuale si è passati dunque a immagini dirette, realistiche, dirompenti, intrise di simbolismi di immediata lettura, che si associano a scene di fughe collettive, di sangue, di sofferenza e di terrore.

L’artista vuole condividere ora più che mai il senso del proprio lavoro, così che si diffondono velocemente – sul web, nelle mostre personali e collettive – anche espressioni legate all’ambito dell’illustrazione, dei graffiti, del tatuaggio (cui aggiungerei il teatro di strada), con la loro vocazione a tradurre in linguaggio più duttile e popolare quelli più astratti della pittura.

E, correndo sul web in tutte le direzioni, le opere compongono un nuovo patrimonio iconico, sono pronte a divenire meme, strumenti in cui tutti possano riconoscersi, talvolta accompagnando e promuovendo attività di crowfunding a beneficio delle famiglie delle vittime o di associazioni.

Ziva Jelin spiega il dipinto “Curving road” in una sala dell’Israel Museum di Gerusalemme

Non stupisce, in questo clima, l’emergere di nuovi collettivi di artisti, fenomeno sottolineato da Craig Dershowitz, di Artists 4 Israel, il collettivo tra i più affermati in Israele nell’ultimo decennio (a proposito: aprite il loro sito, per leggervi in frontespizio “Art over Hate”).

Si tratta di produzioni aperte alla coscienza collettiva attraverso un numero significativo di iniziative e di esposizioni, anche fuori dai confini di Israele.

Lo sa chi ha potuto assistere in novembre al Maxxi di Roma, e in dicembre al Palazzo delle Stelline a Milano, al prodotto di videoart intitolato “Novantacinque per cento paradiso, cinque per cento inferno”, che riunisce cinque opere video di sei artisti israeliani, lavori incentrati sul tema della pace e del conflitto. Le opere provengono dalla galleria d’arte del kibbutz Be’eri, proprio quello distrutto il 7 ottobre a poche centinaia di metri dai confini di Gaza.

Tornando a Israele, alla Jaffa Port Gallery ha avuto luogo dal 7 al 23 dicembre la mostra Or Gadol (Grande Luce). Settantacinque artisti, molti provenienti dalle comunità al confine con Gaza, vi hanno proposto opere figurative e installazioni, spesso legate all’iconografia della sofferenza e al sapore acre degli eventi recenti. I proventi della mostra andranno in maggioranza ad istituzioni culturali e artistiche del sud di Israele.

In questo contesto spicca la presenza di Ziva Jelin, artista e curatrice della stessa galleria d’arte del kibbutz Be’eri. L’artista ha recuperato e conservato all’Israel Museum di Gerusalemme Curving Road, una sua tela trafitta da un proiettile e lacerata da schegge dell’edificio raso al suolo, rara sintesi dei linguaggi dell’arte e dell’accadimento. L’opera rappresenta uno scorcio del paesaggio del kibbutz, intriso completamente di rosso. “Il rosso è puro sentimento”, scrive Jelin. Esso “indica il legame e l’appartenenza al luogo in cui vivo”. Ma qui, è stato sottolineato, il rosso ben rappresenta “una profezia che si è avverata”.

(israele.net, 22.12.23)

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