A due mesi dal 7 ottobre è imperativo raccontare per sapere, far sapere e ricordare

E per contrastare l’ignobile infamia del negazionismo montante

Israele, 7 ottobre 2023

Non chiediamo a nessuno, nemmeno a noi stessi, di vedere i video delle atrocità perpetrate dai terroristi palestinesi di Hamas il 7 ottobre in Israele. Ma siamo grati a coloro che l’hanno fatto, per dovere professionale e spirito di servizio, fornendone un resoconto verbale fedele.

Se pubblichiamo quei resoconti, benché di lettura quasi insostenibile, non è certo per indulgere a una sorta di fiera dell’orrore. La legittimità della guerra di Israele contro i terroristi non ne ha bisogno: basterebbe anche solo una frazione di quegli orrori, senza bisogno di riportarli e conoscerli tutti, per spiegare come mai Israele ha il dovere di debellare Hamas e i suoi complici.

Se li pubblichiamo è perché riteniamo indispensabile che tutti – e non solo gli ebrei e gli israeliani – prendano consapevolezza di cosa è stato realmente il 7 ottobre: la manifestazione più compiuta e inconfutabile, addirittura esibita, dell’ideologia e del programma perfettamente genocida che minaccia Israele.

Il 7 ottobre abbiamo visto all’opera l’odio nazi-islamista.

Dopo il 7 ottobre, sappiamo esattamente cosa farebbero, se solo potessero, i fanatici nemici d’Israele, accompagnati e sostenuti dagli strepiti di compiaciuta esultanza delle masse di invasati che da due mesi strappano i manifesti coi volti degli ostaggi e si riversano nelle strade di mezzo mondo gridando senza vergogna “dal fiume al mare”: lo slogan che invoca l’annientamento dello stato ebraico e dei suoi cittadini (ebrei e non ebrei).

Dopo il 7 ottobre, sappiamo cosa vogliono fare e come vogliono farlo. Pubblichiamo, perché nessuno possa dire non sapevo, non ci credevo, non avevo capito.
(mp)

Avvertenza: questi articoli presentano descrizioni crude ed esplicite, ancorché doverose.

Lucia Annunziata, autrice di questo articolo

Scrive Lucia Annunziata: I terroristi arrivano nel kibbutz di Be’eri con il fiatone, corsa o paura, il respiro viene registrato dalla GoPro sulla fronte, le immagini scorrono per noi come fossimo loro sui prati ordinati, i fiori, le modeste verande dei kibbutzim. Solo un cane è sveglio, va incontro festoso agli sconosciuti, l’obiettivo della GoPro inquadra la punta di un fucile. Il primo colpo è al petto, ma non ferma la corsa festosa dell’animale, e nemmeno il secondo. Solo il terzo colpo in pieno petto ferma il cane, che pare sorpreso, poi si accuccia e muore senza un guaito appoggiando la testa sulle zampe.

È forse questo l’unico racconto che posso farvi senza scadere nella pornografia del sangue, il voyeurismo della violenza. Quaranta minuti di un video, che le autorità israeliane stanno mostrando a gruppi di giornalisti intorno al mondo «perché più passa il tempo dal 7 ottobre, più sono le persone che dicono che non è accaduto nulla, o che è stata tutta una finzione organizzata dallo stesso esercito di Israele», dice l’ambasciatore a Roma del governo israeliano.

Prima o poi il video sarà visto dal maggior numero possibile di persone, ci auguriamo. E, tanto per essere precisi ed evitare altri sospetti sul filmato, diamo conto di come è stato messo insieme: sono migliaia di video girati da diverse fonti, ognuna delle quali è indicata con precisione.

Molti di questi, io che scrivo, li ho già visti sulla rete di Al Jazeera nelle ore e nei giorni immediatamente seguenti l’attacco: in questo caso sono tutte immagini girate in soggettiva con le camere sulla fronte dei terroristi di Hamas. Ci sono poi le immagini riprese dalle telecamere delle auto degli israeliani sulla strada. Ci sono quelle delle telecamere dell’esercito di Israele quando i soldati sono arrivati per un’operazione salvezza fatta troppo tardi. Infine, si ascoltano le registrazioni fatte dall’esercito israeliano, quando l’operazione soccorsi è partita, fra combattenti di Hamas e i loro comandanti che controllavano i terroristi attraverso le GoPro e i telefonini.

Andrò solo per capitoli. Il più importate, perché è quello su cui ci sono più dinieghi, riguarda gli stupri alle donne. L’Onu ha annunciato in queste ore che ci sarà un’inchiesta. Sarà fatta raccogliendo tutte le prove, ma di prove ce ne sono a sufficienza nelle immagini: le giovani hanno tutte sangue che cola fra le gambe, e molte anche dalla bocca. In una ripresa in una sorta di capannone, c’è una fila di ragazze morte, appoggiate al muro col busto, ordinatamente, i corpi con vestiti in disordine coperti di sangue un po’ dappertutto, dalla bocca, appunto, alle gambe, alla pancia. In un altro filmato una ragazza scende da una jeep con le mani legate dietro. Ha un top e un pantalone della tuta grigio chiaro. Si gira, e dietro, su quel pantalone chiaro si vede una enorme macchia di sangue, mentre viene spinta su una diversa macchina.

Amit Soussana lotta strenuamente contro rapimento e deportazione per mano di 7 terroristi palestinesi (Clicca l’immagine per il video su X)

Questo video, ne sono spettatrice, è passato tantissime volte su Al Jazeera e poi sulle Tv di tutto il mondo. Ho visto anche di nuovo quello che per me è ancora oggi il massimo della pena: una ragazza bionda con addosso solo uno slip e il reggiseno, circondata da uomini che festeggiano, viene portata a pancia in giù sul retro di un camioncino. Per farla stare dentro le misure le hanno spezzato le gambe e gliele hanno rigirate in avanti. Sembra che sia morta.

Ascoltando le istruzioni che arrivano a Hamas sui telefonini delle telecamere, ce ne sono del tipo «basta adesso con quel corpo, portatelo ai ragazzi e fateli giocare», «spara, spara, uccidi, uccidi il più possibile», a un certo punto sparano tanto che arriva l’ordine di «risparmiare un po’ di proiettili». Nei kibbutz si vede la caccia porta per porta, stanza per stanza, spesso vuote, perché molti sono già andati nelle saferoom. Uno che non è scappato viene ucciso sul divano attraverso la rete anti-zanzare dell’entrata. Lo sparo è casuale, giusto passando. Un padre e due figli in mutande appena svegli cercano di fuggire. Il padre porta in braccio il più piccolo, vanno in un rifugio in giardino, e si vede un braccio che lancia una granata dentro la stanza blindata. Il padre si butta sulla granata, i bambini scappano di nuovo e tornano a casa urlando il nome del padre, uno dei due è ferito agli occhi. Quelli di Hamas se ne sono andati. So per averlo letto come finisce questa storia: i due fratelli sono poi riusciti a scappare e sono stati trovati vivi. Poi ci sono i ragazzi del rave, che piangono davanti al loro telefonino, e c’è la decapitazione. Due esempi per tutti: a terra ci sono due soldati uccisi, uno di loro ha la testa esplosa, all’altro la testa verrà tagliata da un civile volenteroso che sega a fatica l’osso del collo con un coltello e poi espone il bottino; anche di un’altra decapitazione è protagonista un civile: ci sono a terra due uomini uno dei quali, in mutande, è ancora vivo; arriva un civile gridando grazie ad Allah e chiede in una frenesia di urla «datemi qualcosa, datemi un coltello», gli danno una zappa e lui comincia a cercare di staccare quella testa con uno strumento che non taglia, mentre sotto di lui sobbalza a ogni colpo la vittima.

Ci sono tanti morti, trovati poi dai militari di Israele, un mare di sangue nelle case, a pozze, a strisce sul pavimento, di corpi sovrapposti immersi in questo rosso. Ci sono i corpi bruciati o semi bruciati. Ci sono i bambini uccisi: gli israeliani hanno coperto i buchi dei proiettili con nastro adesivo rosa, quelli in fronte sembrano dei fiocchi. Basta così. Al ventesimo minuto dei quaranta era impossibile continuare a guardare per la nausea. Eppure avevo evitato ogni cibo dalla mattina.

Ma forse il peggio non viene dalle immagini, ma dalle parole: i terroristi, quasi tutti giovani, che si scattano foto celebrando i morti dei nemici urlando la loro gioia, urlando a squarciagola in questo deserto; e la folla che a Gaza circonda con altrettanta gioia i camioncini che portano ostaggi mezzi vivi e mezzi morti. Infine, il grido di un giovane nella telefonata al padre: «Abu, tuo figlio è un eroe. Ho ucciso con queste mani 10 israeliani. Con le mie mani, Abu», e il padre lo benedice, e il ragazzo chiede della madre e ripete «Sono un eroe, madre» e nel sottofondo una voce, ma non si capisce se sia del padre o della madre, risponde «Uccidi, uccidi, uccidi».
(Da: La Stampa, 30.11.23)

Mi chiamo Lee Kern. Ho 45 anni. Sono uno scrittore di Londra. Dopo aver visto filmati di alcuni dei crimini commessi da Hamas contro i civili israeliani il 7 ottobre 2023, sono andato in Israele e ho chiesto il permesso di partecipare a una proiezione stampa con filmati che le famiglie hanno chiesto di rendere pubblici. Non è questo che voglio fare nella vita. Sono un civile. Sono un artista. Ho la mia salute mentale da proteggere. Ma è diventato chiaro che stiamo vivendo la negazione dell’Olocausto in tempo reale. Chi vuole distruggere Israele e serba rancore verso gli ebrei non è il mio pubblico: abbraccia un anti-intellettualismo che rincorre obiettivi mendaci. Ma sono ancora convinto che il mondo civilizzato abbia un vantaggio su coloro che sono debilitati dall’odio e dal complottismo. Scrivo per loro, e anche per le vittime. Di seguito sono riportati gli appunti che ho preso durante la proiezione del filmato che dura quarantacinque minuti. E’ estremo fin dall’inizio, e lo diventa sempre di più. Di seguito sono riportate le descrizioni dei filmati girati dai terroristi di Hamas con le loro bodycam e i telefoni cellulari. Ci sono anche i filmati delle dashcam, delle telecamere a circuito chiuso e dei telefoni cellulari delle vittime. Il filmato inizia quando Hamas entra dentro Israele. I miliziani sono su camion e moto. Gridano Allahu Akbar. Ancora e ancora. Allahu Akbar. I loro volti sono raggianti di gioia. Sono così felici. … …
Continua la lettura su Il Foglio, 10.11.23 oppure su Morashà-Kolot 14.11.23 

John Spencer, capo del Dipartimento di studi sulla guerra urbana del Modern War Institute con sede negli Stati Uniti, ha pubblicato una serie di post sulla piattaforma X dopo aver visto il film delle atrocità del 7 ottobre in una proiezione organizzata a New York dal portavoce delle Forze di Difesa israeliane.

“Nessuno dovrebbe volerlo vedere, ma gli orrori di quel giorno non devono mai essere dimenticati” scrive Spencer in uno dei post. E aggiunge: “Il video inizia con i terroristi di Hamas che viaggiano nel retro di camioncino armati di AK-47, razzi RPG e mitragliatrici pesanti, e passano attraverso una breccia nella barriera di confine. Urlano tutti di gioia, gridando più e più volte ‘Allahu Akbar’. Altri camion e motociclette entrano in Israele dietro di loro”.

La serie di oltre 20 post, raggiunta da oltre 15 milioni di utenti, prosegue con descrizioni scioccanti delle scene visibili nel video che YnetNews preferisce non riferire nei dettagli.

Verso la fine della seria, Spencer scrive: “Ho visto in prima persona la mia quota di male nel mondo nelle guerre. Ho visto atroci crudeltà/disumanizzazioni/mutilazioni. Ho guardato negli occhi uomini malvagi. Ma non ho mai visto così tanti uomini malvagi (centinaia, migliaia) mostrare tanta gioia nel commettere le loro azioni. Ora capisco perché questo video deve essere mostrato in modo selettivo. Non puoi guardarlo senza esserne in qualche modo traumatizzato. Non dimenticherò mai i bambini. Foto dopo foto di bambini morti. Odiavo dover guardare quel video. Non puoi cancellare dagli occhi il male che in esso è mostrato. Nessuno dovrebbe volerlo vedere, ma gli orrori di quel giorno non devono mai essere dimenticati. E mai giustificati.”
(Da: YnetNews, 6.12.23)

“Non avevo bisogno di vedere il film: i fatti sono i fatti, è la verità”. Lo ha detto Adel Badir, sindaco della città araba israeliana Kafr Qasim, all’emittente pubblica Kan, ribadendo la condanna dei crimini del 7 ottobre, dopo aver assistito mercoledì sera a una proiezione del video delle atrocità di Hamas organizzata dall’Ufficio del primo ministro per i leader della comunità araba d’Israele. “La leadership araba israeliana – ha aggiunto Badir – ha mostrato responsabilità e fin dal primo giorno ha condannato quanto accaduto. Lo hanno fatto la maggior parte dei sindaci arabi, se non tutti. Va contro i nostri valori e quelli dell’islam. Quando conosci personalmente alcune delle persone assassinate è ancora più dura. Hanno rapito persone, hanno portato bambini a Gaza. Me ne sono andato dopo le immagini dei due ragazzini e del loro padre. Non potevo sopportarlo. Sono padre di sei figli e ho 13 nipoti, non potevo”.
(Da: Times of Israel, 6.12.23)

Nuove immagini diffuse lunedì sera documentano la strenua lotta ingaggiata da Amit Soussana contro i terroristi palestinesi di Hamas che il 7 ottobre l’hanno rapita dalla sua casa, nel kibbutz Kfar Aza, e deportata a Gaza.

Nel filmato, trasmesso da Channel 12 News, si vede Soussana che si oppone con tutte le sue forze al rapimento e ci vogliono ben sette terroristi armati per sopraffarla con violenza. Quando uno dei terroristi tenta di caricarsela sulle spalle, Soussana lo fa cadere a terra dopo pochi passi.

Amit Soussana, avvocata 40enne, è stata uno degli ultimi ostaggi rilasciati alla fine della tregua, lo scorso 30 novembre. Dopo il rilascio, ha acconsentito alla pubblicazione del filmato, ripreso dalle telecamere di sicurezza attorno a Kfar Aza.
(Da: Israel HaYom, Times of Israel, 4-5.12.23)

Ariel Zohar e suo nonno, sopravvissuto alla Shoà, con un volontario di Zaka

Un ragazzino israeliano la cui famiglia è stata sterminata dai terroristi palestinesi il 7 ottobre, celebra giovedì il suo bar mitzvah (cerimonia della maggiorità religiosa).

Ariel Zohar, del kibbutz Nahal Oz, si è miracolosamente salvato dal massacro del 7 ottobre perché era uscito a correre. Suo padre Yaniv Zohar, 54 anni, sua madre Yasmin, 49 anni, e le sorelle Keshet, 18 anni, e Tehelet, 20 anni, sono stati tutti assassinati da Hamah e sono stati sepolti in un funerale congiunto il 18 ottobre a Rishon Letzion (presso Tel Aviv), dove ora vive Ariel a casa di uno zio.

Ariel Zohar è riuscito a recuperare dalla sua casa distrutta due paia di tefillin o filatteri (le piccole scatole di pelle nera contenenti rotoli di pergamena con incisi versetti della Torà che vengono indossati durante le preghiere). Il primo paio era quello che i suoi genitori gli avevano comprato per il suo bar mitzvah. Il secondo paio, recuperato da un volontario dell’ente di identificazione vittime della Zaka, era stato consegnato al padre di Ariel dal nonno Marco, un sopravvissuto alla Shoà che a sua volta ha avuto i propri genitori assassinati dai nazisti.

Chaim Otmazgin, il volontario di Zaka che ha recuperato i tefillin, ha riferito le parole che il nonno novantenne ha detto al nipote: “I miei genitori sono stati assassinati quando avevo 14 anni. Oggi ho un nipote che vive in Israele. Anche a te hanno fatto la stessa cosa quando hai 12 anni. Anche tu avrai dei nipoti in Israele”.
(Da: jns.org, 6.12.23)