Israele ha vissuto una settimana di tensione emotiva come mai nella sua storia

Se c’è una cosa su cui l’opinione nel paese è unanime è l’assoluta necessità di vincere questa guerra se Israele vuole sopravvivere

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

In 75 anni di esistenza Israele e gli israeliani ne hanno passate tante. Hanno sperimentato la guerra e la pace, ostaggi catturati e ostaggi rilasciati, e atti di terrorismo crudeli e spietati. Ma non avevano mai vissuto una settimana come quella appena trascorsa.

Una settimana in cui, sera dopo sera, tutto il paese è rimasto incollato ai teleschermi nella spasmodica attesa di vedere se la tranche di ostaggi prevista per la giornata sarebbe stata effettivamente rilasciata.

Una settimana passata a guardare, giorno dopo giorno, i video di figlie che correvano nelle le braccia dei padri e di madri che accarezzavano dolcemente il viso di figli che non vedevano e di cui non sapevano più nulla da più di 50 giorni.

E’ stata anche una settimana in cui abbiamo ascoltato le suppliche strazianti di nonni che chiedevano che i loro nipoti fossero sulla lista delle persone da lasciar andare il giorno dopo, e di nipoti che imploravano che i loro nonni venissero rilasciati o almeno ricevessero le medicine di cui avevano estremo bisogno.

È stata una settimana durante la quale si sono sentiti i racconti dei tormenti che hanno dovuto subire gli ostaggi durante la prigionia nelle mani di Hamah, e storie angoscianti di bambini tornati a casa per scoprire che i loro genitori sono stati assassinati.

Una settimana a chiedersi se la guerra sarebbe ripresa l’indomani, mandando di nuovo al fronte, nel pericolo, soldati e riservisti del paese: nostri figli e figlie, mariti e mogli, fratelli e sorelle.

In passato gli israeliani hanno avuto a che fare con vette e abissi emotivi, con la mescolanza di gioia e dolore, con alti e bassi di tutta la nazione. Ma quasi nulla è paragonabile alla situazione attuale in cui, a livello nazionale, la dolorosa operazione di togliere il metaforico cerotto viene fatta a un ritmo spaventosamente lento e straziante.

Al momento del suo rilascio, Rimon Kirsht fissa negli occhi con chiaro disprezzo un terrorista di Hamas mascherato e armato (clicca l’immagine per il video)

Una settimana di calvario che non aveva mai fine. Il dolore e la gioia della notte precedente sempre seguiti da un’altra nottata di dolore e gioia, e poi un’altra e un’altra ancora.

Questa settimana ha teso i nervi della nazione come mai prima d’ora e ne ha scosso l’equilibrio emotivo. E’ stata una settimana israeliana senza precedenti.

È stata anche una settimana caratterizzata da molte immagini che catturano l’essenza di Israele. Persone esultanti che sventolavano le bandiere lungo le strade, sera dopo sera, vicino alla base aeronautica di Hatzerim, per accogliere i furgoni che trasportavano gli ostaggi. I piloti degli elicotteri che, durante il volo verso gli ospedali, si rivolgevano con commovente gentilezza ai bambini appena usciti da una prova orribile.

Particolarmente suggestiva l’immagine di un video che ha colto molto bene l’israelianità. Vi si vede una degli ostaggi liberati, Rimon Kirsht, che in pigiama rosa esce martedì notte da un veicolo di Hamas e impavida guarda negli occhi con incrollabile disprezzo un terrorista di Hamah, mascherato e pesantemente armato; poi inclina la testa di lato in un gesto che dice: “Non sei il mio capo”. Quindi, con il braccio attorno alle spalle di una sua compagna di prigionia, Merav Tal, si incammina a testa alta e con grande dignità verso un veicolo della Croce Rossa in attesa, mentre tutt’attorno una folla di palestinesi senza vergogna le scherniscono e dileggiano. Prima di salire sul veicolo, scambia poche parole e uno sguardo di disapprovazione con un’operatrice della Croce Rossa Internazionale, un’organizzazione la cui inefficacia si è dolorosamente mostrata in tutta evidenza lungo l’intera vicenda degli ostaggi nelle mani dei terroristi di Gaza.

Il comportamento di Rimon Kirsht l’ha rapidamente catapultata nella notorietà dei social network. Reagendo al filmato, una persona ha scritto: “L’eroina del giorno, la leggendaria Rimon Kirsht, si oppone al terrorista di Hamas e lo affronta con la pura verità. Poi non risparmia giustificate critiche al rappresentante della Croce Rossa. Donne coraggiose e assertive sono l’emblema della crescente forza di Israele in questi giorni. Potrei continuare a guardare quel video a ciclo continuo. E’ una campionessa”.

Due israeliane, ebrea e araba, all’opera in un centro di volontari a sostegno dei concittadini colpiti dalla guerra

Cosa molto significativa, benché la settimana passata abbia messo a dura prova le risorse emotive del paese, non si è sentita praticamente nessuna voce che chiedesse pubblicamente al governo di accettare un cessate il fuoco permanente e di fermare la guerra adesso. In tutto il mondo – nelle piazze e nei corridoi del potere – ci sono stati appelli, in molti casi odiosi e apertamente antisemiti, che invocavano la fine dei combattimenti a Gaza. In tutto il mondo si sono moltiplicate le richieste per un cessate il fuoco permanente.

Non in Israele. Non tra gli israeliani, che pure pagheranno caro il prezzo della mancata fine della guerra dal momento che saranno i loro figli e le loro figlie a rischiare la vita continuando a combattere, e saranno le loro mogli e i loro mariti che resteranno a casa soli con i figli piccoli mentre i coniugi sono nel nord o nel sud a combattere i terroristi.

La vita israeliana è stata completamente stravolta da questa guerra: l’economia è devastata, le famiglie temporaneamente divise perché mariti e padri sono lontani da casa ormai da due mesi. Eppure non ci sono proteste, qui, per porre fine alla guerra, né appelli significativi per fermare i combattimenti, nemmeno da parte dei partiti sionisti più pacifisti e di sinistra.

In Israele, oltre al tremendo turbamento emotivo, permane un forte sostegno alla guerra contro il terrorismo che attraversa tutti gli schieramenti. Un sondaggio dell’Israel Democracy Institute della scorsa settimana ha rilevato che oltre il 90% degli ebrei israeliani sostiene gli obiettivi della guerra: abbattere Hamas, liberare tutti gli ostaggi, ripristinare la deterrenza.

Possono esserci disaccordi sulla questione se l’obiettivo primario della guerra debba essere quello di mettere fuori combattimento Hamas o quello di favorire il ritorno degli ostaggi. Possono esserci differenze sul fatto che questi due obiettivi siano complementari o contraddittori. Ma c’è un forte, vasto consenso sul fatto che, siccome nessuno dei due obiettivi è stato finora raggiunto, una volta concluse le tregue umanitarie per il rilascio degli ostaggi, la guerra deve riprendere.

Forse il ricordo e la consapevolezza delle atrocità e degli orrori perpetrati da Hamas il 7 ottobre sta svanendo nel mondo. Non in Israele. Qui rimangono crudi e vivi e ben impressi nella mente di soldati e riservisti che, nonostante le difficoltà e i sacrifici degli ultimi due mesi per loro e le loro famiglie, rimangono determinati e motivati.

Volti di persone uccise o deportate da Hamas nel festival musicale nel sud di Israele durante la carneficina del 7 ottobre

C’era una certa preoccupazione che la tregua e lo stillicidio del rilascio degli ostaggi, giorno dopo giorno, avrebbero mitigato lo sdegno e il furore provati dagli israeliani e che stavano alla base dell’offensiva militare a Gaza. Non c’è alcun segnale in questo senso. Al contrario, il modo in cui Hamas gioca disumanamente con le emozioni del paese, il modo in cui ha rilasciato il gruppo di ostaggi di sabato sera solo due minuti prima della mezzanotte (sottoponendoli alla gogna di una folla urlante), il modo in cui afferma di non riuscire a “trovare” alcune madri e alcuni bambini, il modo in cui non vengono rilasciati Kfir Bibas, di 10 mesi, suo fratello Ariel, di quattro anni, e i loro genitori Shiri e Yarden, sostenendo che siano stati uccisi in un attacco aereo israeliano, tutto questo non fa altro che aumentare la collera  e la determinazione di distruggere l’organizzazione terrorista.

E lo stesso fanno i racconti che ora filtrano di come Hamas ha maltrattato gli ostaggi, torturandoli mentalmente in alcuni casi, picchiandoli in altri. Questo non attenua la volontà di combattere l’organizzazione terroristica. Anzi, la aumenta. Così come la aumenta, ovviamente, l’attentato terroristico a Gerusalemme di giovedì mattina: ennesimo atroce attacco di terroristi che assassinano civili innocenti a sangue freddo. E se ne vantano.

Il sentimento della nazione è stato ben riassunto mercoledì pomeriggio da Haim Jelin, residente del kibbutz Be’eri, ex capo del Consiglio regionale meridionale di Eshkol, già parlamentare di Yesh Atid dal 2015 al 2019, poi passato al partito laburista con il quale ha mancato la rielezione. “Mettiamo le carte in tavola – ha detto in un’intervista all’emittente Kan Reshet Bet – Innanzitutto, tutti gli ostaggi devono essere riportati a casa. Tutti”. In secondo luogo, ha detto, “il governo deve guidare le Forze di Difesa israeliane verso l’eliminazione del terrorismo. Senza questo, nessuno andrà a vivere nel Negev (sud di Israele ndr). Questa non è una guerra per la regione meridionale, ma per il carattere del paese: bisogna capire come Israele può eliminare il terrorismo in modo che tutti i nostri vicini capiscano e vedano bene. Questo è quello che dobbiamo fare, senza timori. Ci saranno pressioni diplomatiche? Sì, ci saranno. Ma tutto Israele è stato violato e umiliato. Tutti noi, l’intero paese”.

Non sono parole di un esponente della destra nazionalista. Sono parole da uno che si identifica da sempre con il centrosinistra. Sono parole che arrivano dopo due mesi di combattimenti all’interno della striscia di Gaza e riflettono l’opinione radicata in questo paese secondo cui Israele sta combattendo una guerra giustificata, legittima e inevitabile e che deve assolutamente vincere se vuole sopravvivere.

Mentre la guerra infuria, mentre crescono le pressioni dall’estero, mentre viene fatta circolare l’idea che Israele dovrebbe fermare la guerra se Hamas liberasse tutti gli ostaggi rimanenti o se i suoi capi accettassero di lasciare Gaza, potranno aprirsi delle crepe in questo generale consenso. Ma se accadrà, sarà più avanti. In questo momento, anche dopo una settimana emotivamente snervante come il paese non aveva mai sperimentato prima, e nonostante la piena consapevolezza dei costi umani e materiali legati alla continuazione della guerra, il paese rimane risoluto.

Nelle prime fasi della guerra il primo ministro Benjamin Netanyahu ha descritto la situazione in termini molto crudi: o Hamas o noi. Ben pochi israeliani in quel momento avrebbero avuto da ridire su quella rappresentazione, e ben pochi israeliani affermerebbero – anche dopo una settimana in cui sono stati rilasciati più di 100 ostaggi – che le cose non stanno così.

(Da: Jerusalem Post, 2.12.23)