Dopo tre settimane di guerra, tre settimane di campagna elettorale

La posta in gioco nella controffensiva anti-Hamas va ben al di là della competizione politica interna israeliana

M. Paganoni per NES n. 1, anno 21 - gennaio 2009

image_2385La domanda di rigore che tutti i giornalisti stranieri ponevano agli intervistati israeliani durante i giorni della controffensiva anti-Hamas nella striscia di Gaza era: che influenza ha avuto l’imminente scadenza elettorale del 10 febbraio sulla decisione di lanciare le operazioni militari il 27 dicembre 2008? La risposta degli esponenti israeliani era sempre la stessa: “nessuna”. Il timing della controffensiva, ripetevano, è stato determinato dalla fine della tregua, il 19 dicembre, e da una ulteriore settimana di inutili sforzi per cercare di rinnovarla.
In effetti, fa notare Gil Hoffman (Jerusalem Post 3.01.09), i due politici cui competeva l’ultima parola sulla decisione – il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il ministro della difesa e leader laburista Ehud Barak – risultano entrambi esclusi dalla gara per la futura premiership: l’uno perché non è nemmeno in corsa, l’altro perché fin troppo distanziato nei sondaggi. I due competitor più forti – il ministro degli esteri e leader di Kadima, Tzipi Livni, e il leader dell’opposizione Likud, Binyamin Netanyahu – sono stati certamente consultati sulla decisione militare, ma non se la possono attribuire.
La spiegazione naturalmente non convincerà mai i giornalisti stranieri che amano atteggiarsi a osservatori smaliziatissimi, ma neanche quel milione circa di israeliani che vivono nel raggio dei missili palestinesi di Gaza: secondo loro, Gerusalemme non avrebbe dovuto aspettare così tanti anni, tentando ogni sorta di possibile opzione alternativa prima di reagire con forza alla “roulette russa” imposta dai Qassam di Hamas.
Tradizionalmente si ritiene che le minacce alla sicurezza e le impennate del terrorismo tendano a spostare a destra l’elettorato israeliano e a favorire i candidati dalla personalità “forte e determinata”. Dunque la controffensiva a Gaza – così procede la lettura dietrologica – doveva servire a rilanciare un profilo più agguerrito di Kadima e laburisti. Se davvero questo secondo fine ha guidato le scelte di qualche politico, i sondaggi più recenti (Maagar Mohot/Canale 2 e Dialog/Canale 10 del 18.01.09) sembrano tuttavia smentirlo. Dopo tre settimane di guerra a Hamas e a sole tre settimane dal voto, le posizioni non sembrano subire spostamenti sconvolgenti: il Likud confermerebbe un vantaggio su Kadima tra i due e gli otto seggi, i laburisti confermerebbero il calo verso i 15 seggi. Complessivamente il blocco di centro-destra otterrebbe la maggioranza (64-65 seggi su 120) rispetto al blocco di centro-sinistra (55-56 seggi). Risultati non molto diversi, per ora, da quelli previsti prima della guerra.
Naturalmente la campagna elettorale, ancorché breve, sarà intensa e non mancherà di sfruttare tutti i possibili risvolti dell’operazione a Gaza. Le Forze di Difesa israeliane ne sono uscite bene; Netanyahu non può né vuole negarlo, ma sosterrà che il Likud avrebbe ottenuto di più sul piano politico-diplomatico per sottrarre voti alla Livni. Barak cercherà di capitalizzare sulla sua rinnovata immagine di “mister sicurezza” pur cercando di frenare la perdita di voti a sinistra verso formazioni più “colombe”.
Ma il quadro non si esaurisce qui. Nello scoppio della guerra a Gaza, più dell’arena elettorale israeliana hanno giocato altri e più potenti fattori. La “finestra” offerta dalla transizione presidenziale a Washington, certamente. Ma non vanno dimenticati almeno altri due elementi.
Innanzitutto la feroce lotta di potere fra palestinesi, con Hamas decisa a mostrare i muscoli alla vigilia della scadenza del contestassimo mandato presidenziale di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), e che ha creduto di poterlo fare impunemente a spese dei cittadini di Sderot e dintorni.
E poi l’Iran. Fino a tutto dicembre, fa notare Ashley Perry (YnetNews, 7.01.09), i riflettori del mondo erano puntati su Teheran. La sua corsa alle armi nucleari era la preoccupazione di tutti, mondo arabo compreso. E aggiunge: “Finché il petrolio volava a 150 dollari al barile, l’Iran poteva tranquillamente ignorare le minacce di sanzioni come un semplice fattore di disturbo. Poi però, con il petrolio crollato sotto i 40 dollari, ha iniziato a profilarsi il disastro economico”. L’escalation voluta da Hamas, che ha dirottato tutti su altri scenari, porta evidenti “le impronte digitali dell’Iran”. Perry cita un alto diplomatico egiziano: “Noi cerchiamo di costruire la pace mentre loro la mandano in frantumi. Noi vogliamo alleviare le sofferenze del popolo palestinese mentre loro vogliono che continui a soffrire. Noi vogliamo un Libano laico, democratico e stabile mentre loro vogliono instaurarvi un regime di tipo iraniano sotto il dominio degli Hezbollah”. L’Iran, insomma, avrebbe un preciso interesse a destabilizzare la regione e a distrarre l’attenzione dalla vera minaccia costituita dalle sue ambizioni nucleari.
Quale che sia, la maggioranza di governo israeliana che uscirà dalle elezioni dovrà comunque fare i conti con questa realtà, locale e regionale, cui la controffensiva di gennaio ha impresso forse una battuta d’arresto, ma che certamente non ha risolto del tutto.