Il difficilissimo equilibrio tra ritorno degli ostaggi e smantellamento di Hamas, entrambi indispensabili

Un’ampia parte degli israeliani dubita delle motivazioni di Netanyahu, ma in questo momento qualunque primo ministro dovrebbe condurre la stessa guerra

Da un editoriale del Jerusalem Post

Tel Aviv, gennaio 2024: volti e nomi di ostaggi nelle mani dei terroristi di Hamas

Mentre la guerra dentro la striscia di Gaza si avvicina al quarto mese, vengono messi in discussione con crescente frequenza la sua direzione, gli obiettivi e persino la misura dei successi fin qui conseguiti.

Noi israeliti avremo anche vagato nel deserto per 40 anni ma siamo persone impazienti, soprattutto quando è in gioco la vita di oltre 130 ostaggi e quella di migliaia di soldati che stanno combattendo nei tunnel e fra le case del sud di Gaza.

Hanno una duplice missione: eliminare la presenza e la dirigenza di Hamas e localizzare gli ostaggi. Tuttavia, secondo alcuni esperti militari la probabilità di conseguire entrambi gli obiettivi è scarsa.

Secondo fonti americane citate dal Wall Street Journal, Israele ha ucciso tra il 20% e il 30% dei combattenti di Hamas (e Jihad Islamica) nella striscia di Gaza. Queste cifre, un po’ inferiori alla valutazione israeliana, sono tutt’altro che trascurabili e non possono essere in alcun modo definite un insuccesso. In tre mesi Israele ha messo fuori combattimento (morti, feriti e catturati) fra un terzo e metà delle forze di Hamas (valutate prima della guerra tra i 30 e i 40mila uomini armati ndr). Fin dall’inizio, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che questa guerra non sarebbe durata sei giorni e nemmeno sei settimane. Si parlò di un anno come tempistica per uno scrupoloso (e pericoloso) processo di smantellamento dei tunnel e di ricerca porta a porta dei terroristi e degli ostaggi.

Le Forze di Difesa israeliane sembrano essere sulla buona strada in questo quadro di durata annuale. Resta però da vedere se a Israele verrà dato il tempo necessario per portare a termine l’operazione, tra le crescenti pressioni dall’esterno per il numero di vittime a Gaza e le crescenti pressioni dall’interno per la mancata liberazione di altri ostaggi dopo la fine della tregua di novembre.

I volti e i nomi di 21 soldati israeliani caduti il 23 gennaio 2024 combattendo i terroristi di Hamas

Questo è il momento in cui il governo deve tener duro. Netanyahu lo ha fatto domenica quando ha rifiutato un piano per la fine alla guerra che prevedeva il ritiro da Gaza lasciando a Hamas il controllo dell’enclave, e la scarcerazione di tutti i terroristi palestinesi detenuti, compresi quelli che hanno perpetrato il massacro del 7 ottobre, in cambio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. “Respingo totalmente queste condizioni di resa ai mostri di Hamas – ha detto Netanyahu – Se accettassimo, i nostri soldati sarebbero caduti invano. Se accettassimo, non potremmo garantire la sicurezza dei nostri cittadini, non potremmo riportare gli sfollati alle loro case in sicurezza e il prossimo 7 ottobre sarebbe solo questione di tempo”.

Una fine prematura della guerra lascerebbe Hamas deteriorata, ma sostanzialmente ancora in grado di riprendersi e ripristinare la sua stretta mortale su Gaza e sui palestinesi che tiene in ostaggio dal 2006. E questo è qualcosa con cui Israele non può letteralmente convivere. Basta ascoltare Khaled Mashaal, il leader di Hamas che in un’intervista della scorsa settimana ha ribadito che, dopo il 7 ottobre, “il nostro diritto alla Palestina nella sua interezza dal fiume al mare non è qualcosa da aspettare o sperare, è un’idea realistica già avviata” a realizzazione.

Le famiglie degli ostaggi e i loro sostenitori sono perfettamente giustificate e hanno ragione di protestare e chiedere un cessate il fuoco e un accordo per riportare a casa i loro cari. Chiunque abbia un membro della famiglia ferocemente tenuto prigioniero per più di tre mesi chiederebbe iniziativa e responsabilità al proprio governo.

Tuttavia, un governo ha anche il dovere guardare al quadro più ampio. In questo caso, è la minaccia rappresentata da Hamas alla vita di tutti gli israeliani, attuali e futuri, il fattore principale che alimenta questa guerra.

Il problema è che, oggi, una larga parte della popolazione conosce un significativo crollo della fiducia riguardo alle motivazioni di Netanyahu. Ci si domanda cosa prevalga in esse: se il bene del paese, o la sopravvivenza del governo di cui è alla guida, o procrastinare l’inevitabile tempesta di biasimo che verosimilmente lo travolgerà dopo la guerra. Se l’attuale governo venisse sciolto e si tenessero nuove elezioni, ci sono ottime probabilità che il prossimo primo ministro sarebbe qualcuno diverso da Netanyahu (Benny Gantz? o Yair Lapid?).

Ma nonostante il cambiamento al timone, o nella composizione della coalizione di governo, il prossimo primo ministro adotterà quasi certamente la stessa politica: nessun ritiro da Gaza e continuazione dei combattimenti finché Hamas non sarà più al potere.

Le Forze di Difesa israeliane devono avere il tempo di portare a termine questa missione. Ma per quanto riguarda gli ostaggi il tempo stringe. Spetta al governo, sotto la guida di Netanyahu o di qualcun altro, contrastare le pressioni per un cessate il fuoco alle condizioni di Hamas, mantenendo al tempo stesso come massima priorità il ritorno degli ostaggi.

(Da: Jerusalem Post, 23.1.24)