Mofaz: “È l’esercito che sconfisse il terrorismo delle stragi”

A dieci anni dallo scoppio dell’intifada, il bilancio dell’allora capo di stato maggiore israeliano.

Di Attila Somfalvi

image_2951Shaul Mofaz, parlamentare di Kadima (partito di centro con la maggioranza relativa, ma è attualmente all’opposizione), era capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane quando, dieci anni fa, scoppiava la cosiddetta “seconda intifada”, l’intifada della stragi suicide. E le forze armate, dice oggi Mofaz, si resero conto di trovarsi di fronte a “un nuovo modello di terrorismo”. “Venivano arrestati migliaia di terroristi – ricorda – ma anche se riuscivamo a mettere le mani sul 90% di loro, il restante 10% riusciva a farsi esplodere sugli autobus e nei bar. Alla fine abbiamo vinto. Il terrorismo esiste ancora a vari livelli, ma è collegato ai negoziati diplomatici” spiega Mofaz, che successivamente è stato anche ministro della difesa.
“Sono fiero del lavoro fatto in quegli anni, anche se furono tempi così difficili. Ho personalmente preso parte a cinque guerre, ma gli anni della seconda intifada sono stati i più difficili che io abbia conosciuto. Se c’è una cosa che rimpiango e di non essere riusciti a salvare un maggior numero di vite umane. Più di mille persone vennero uccise nelle stragi terroristiche e mi rammarico di non essere riuscito a porre fine più in fretta all’intifada”.
Dice Mofaz che, stando alle informazioni acquisite dalle Forze di Difesa israeliane, nel febbraio 2001 l’allora leader palestinese Yasser Arafat chiese ai capi dell’apparato di sicurezza palestinese come mai c’erano molte più vittime palestinesi che israeliane. “Arafat disse loro: sapete cosa dovete fare, e fu allora che si scatenò l’ondata di attentati suicidi. Non che prima non ve ne fossero, ma durante quel periodo si arrivò ad averne quattro alla settimana, persino due al giorno”.
Mofaz sostiene che un anno prima dello scoppio della seconda intifada, l’intelligence delle forze israeliane aveva detto di aspettarsi uno scoppio di sommosse palestinesi con uso di armi da fuoco e di attentati esplosivi. “Nessuno aveva ancora parlato di attentati suicidi”, ricorda. Stando alla ricostruzione di Mofaz, Ehud Barak, che all’epoca era ministro della difesa, respinse la richiesta di uno stanziamento straordinario di 600 milioni di shekel (165 milioni di dollari) per preparare l’esercito a quell’eventualità. “Mi dissero: stiamo andando a Camp David a firmare un accordo, di che esplosione vai parlando? Riuscimmo a raccogliere il denaro dal budget della Forze di Difesa, addestrammo i soldati e formulammo piani operativi”.
Più di anno dopo la riunione di Arafat coi suoi capi della sicurezza, un attentatore suicida si fece esplodere la sera della pasqua ebraica nel Park Hotel di Netanya uccidendo 29 persone e ferendone altre 140. Mofaz ricorda una conversazione con l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, subito dopo quell’attentato. “Mi disse: è una giornata dura, e io risposi: non può andare avanti così. Mi chiese cosa avevo in mente e io dissi che dovevamo fare qualcosa di diverso, su una diversa scala, per fermare il terrorismo suicida. Dovevamo entrare in tutte le città e in tutti i campi palestinesi e schiacciare le strutture del terrorismo, creare una nuova realtà di fatto. Dissi a Sharon che dovevamo richiamare i riservisti perché le forze regolari non sanno come farlo. Dovevamo operare in aree residenziali e aree rurali, continuando nel frattempo a proteggere i nostri confini. Richiamammo circa 40.000 riservisti”.
Secondo Mofaz, l’Operazione Scudo Difensivo lanciata dalle Forze di Difesa israeliane in quel l’aprile 2002 “è ciò che spezzò il terrorismo suicida: gli fece passare la voglia di mandare attentatori suicidi”.
Lo sforzo di stroncare il terrorismo suicida portò alla tattica delle uccisioni mirate. “Durante quell’operazione arrivammo alla conclusione che, oltre ad arrestare e uccidere i manovali del terrorismo, dovevamo arrivare ai capi terroristi. Tutti i capi. Lo facemmo cercando di ridurre al minimo possibile le vittime civili”.
Ad una domanda sui risvolti morali delle uccisioni mirate, Mofaz risponde: “Abbiamo il diritto di colpire gli assassini, gente che sappiamo che manda terroristi a farsi esplodere o che personalmente si farà esplodere fra un’ora in mezzo alla gente, mietendo decine di vite? La domanda è: le si ferma o non le si ferma queste vere e proprie bombe a orologeria? Alla fine abbiamo ritenuto che queste uccisioni mirate sono legittime. In molte occasioni sospendemmo delle operazioni perché le probabilità di provocare vittime civili erano troppo alte. I terroristi avevano deciso di usare i loro civili come scudo. Non avevamo altra scelta”.
Mofaz dice che anche la decisione di uccidere il capo “spirituale” di Hamas, Ahmed Yassin, era giustificata. “Decidemmo di eliminarlo perché era lui che aveva deciso che fossero usati tutti i mezzi a disposizione per uccidere quanti più israeliani possibile. In Cisgiordania, le uccisioni mirate avevano avuto successo e alla fine del 2002 gli attentati suicidi erano ridotti al minimo. Fu allora che iniziarono gli attacchi dalla striscia di Gaza. A un certo punto il capo “spirituale” stabilì che anche alle donne fosse permesso compiere missioni esplosive suicide. Ci fu discussione intorno alla decisione di ucciderlo. Era un simbolo, e ci domandavamo se la sua morte avrebbe impresso una escalation o un’attenuazione dello scontro. Dopotutto possiamo dire che contribuì a diminuire le violenze”, valuta Mofaz.
Dieci anni più tardi, Mofaz non vede una gran voglia di scontro violento nell’attuale dirigenza palestinese, ma non esclude la possibilità di un “deterioramento”. “Non penso che un eventuale scontro sarebbe simile a quella ondata di attentati suicidi, perché oggi la società palestinese e la sua dirigenza sanno che la strada della violenza e del terrorismo non potrebbero funzionare. La società e l’esercito israeliano sono forti, non hanno possibilità su questo terreno: non possono più farsi illusioni. Credo che persino Hamas e Jihad Islamica lo capiscano”.
Anche nella società israeliana vi sono stati cambiamenti. La gente vuole pace e tranquillità. “La gente conosce il prezzo della guerra e dello scontro – conclude Mofaz – e capisce che è ora di negoziare. La maggior parte dei palestinesi non vuole lo scontro. Capiscono che hanno da guadagnare da un accordo almeno quanto noi. Possono ottenere uno stato palestinese. Sul versante israeliano, oltre al desiderio di pace, c’è che non abbiamo nessun desiderio di essere degli occupanti”.

(Da: YnetNews, 1.10.10)

Nella foto in alto: Shaul Mofaz