Non capivo il negazionismo della Shoà. Fino al 7 ottobre

"Mia nonna, sopravvissuta, temeva che nessuno le avrebbe creduto. Ora so perché"

Di Eric Silberman

Eric Silberman, autore di questo articolo

“Mi chiedono di andare a parlare nelle scuole – mi disse mia nonna Manya davanti alle meringhe, mentre sedevamo nella sua sala da pranzo a specchi – Ma chi mi crederà?”

Era una domanda retorica. Chi avrebbe mai creduto che questa composta signora, dall’acconciatura voluminosa e col rossetto rosso sul sorriso, avesse subito i lavori forzati in un campo di concentramento in Polonia, scavato fosse comuni e seppellito con terra insanguinata corpi che ancora si muovevano, che fosse fuggita dal campo in fiamme attraverso una spaccatura nel tetto della sua baracca, e trascorso un anno nascosta sottoterra in una fossa così piccola che se uno dei quattro che vi si trovava voleva girarsi, dovevano girarsi tutti?

Ma la domanda di mia nonna era anche letterale. Chi avrebbe creduto che fosse sopravvissuta alla Shoà ,quando la Shoà era appena stata negata da un capo di stato antisemita e da un cattedratico universitario appena girato l’angolo? Che senso aveva mettere a nudo la propria anima e poi passare la notte immersa negli incubi? Chi le avrebbe creduto, in ogni caso?

Quando ebbi questa conversazione con mia nonna, nel 2009, i suoi timori sul negazionismo mi sembravano infondati. Sì, c’erano negazionisti della Shoà, ma erano casi isolati. E poi, la logica risposta al negazionismo sembrava consistere proprio in una più diffusa informazione. Con prove sufficienti, pensavo, i cinici e i diffidenti che mia nonna temeva tanto avrebbero dovuto riconoscere la verità. Di fronte a così tante prove, come si può avere la faccia tosta di negare?

Ora, all’indomani del 7 ottobre, finalmente capisco. Mia nonna non era paranoica. Il suo scetticismo era giustissimo. Nessuna prova della sofferenza ebraica sarà mai sufficiente per annullare il negazionismo, quindi forse è ora che la piantiamo di cercare di spiegare.

Manya, nonna dell’autore (a sinistra), con Marysia, la donna che le salvò la vita nascondendola durante la Shoà

C’è stato un tempo in cui mia nonna era ottimista riguardo alla natura buona delle persone. Una donna polacca cattolica di retti principi, Marysia, aveva rischiato la propria vita per nascondere Manya in quella fossa sotterranea, salvando la vita a lei e ad altri tre ebrei. Dopo la guerra, Marysia emigrò in Canada e mia nonna a Chicago, ma le due rimasero in stretto contatto, e io sono cresciuto conoscendo Marysia come una famiglia. Era umile, ma la sua natura senza pretese non diminuiva la grandezza di ciò che aveva fatto.

Mia nonna e gli altri sopravvissuti alla Shoà costruirono monumenti e musei, pubblicarono libri e registrarono testimonianze. Raccontarono le loro memorie traumatiche, mostrarono le foto dei loro parenti trucidati insieme a quelle di pile di scarpe, occhiali e capelli: tutto nel tentativo di far sì che tutte le persone – non solo gli ebrei – capissero ciò che avevano subito. Facendo conoscere i loro orrori, speravano che la stessa cosa non potesse accadere mai più. Speravano che l’odio verso gli ebrei venisse sradicato.

Anche se la sua depressione in tarda età aumentò il suo scetticismo circa la bontà dell’umanità, io rimanevo fiducioso. Ho memorizzato i dettagli di come i miei nonni scamparono alla guerra e ho intervistato a lungo Manya sulle sue esperienze. Negli ultimi anni ho parlato della Shoà agli studenti delle scuole pubbliche, sfidando l’inasprita visione di mia nonna, fiducioso come ero che avrebbero effettivamente creduto a quello che era successo. Forse, fra tutta quella gente c’era qualche giovane Marysia che aspettava solo un segnale per prendere posizione e agire contro le ondate di odio.

C’è stato un tempo in cui ero ottimista. Poi è arrivato il 7 ottobre, e da allora sono scettico e disincantato.

Che senso aveva raccontare al mondo gli orrori della Shoà? Perché i miei colleghi possano appropriarsene per ribaltarla ed etichettare gli israeliani come i nazisti del XXI secolo?

Che senso aveva incoraggiare i sopravvissuti a mettere a nudo la loro anima? Perché le persone che dicono di avere a cuore la giustizia possano giustificare la carneficina dei nostri fratelli e sorelle ebrei in Israele invocando ulteriori “soluzioni” e “rivoluzioni”?

Che senso aveva chiedere ai sopravvissuti di rivivere i loro ricordi traumatici? Perché gli amici se ne stessero zitti quando i nostri traumi intergenerazionali vengono risvegliati dalla tragedia di oggi? Perché i manifestanti possano urlarci sfacciatamente di tornarcene in Polonia? Perché potessero sputarci addosso e dirci che “Hitler avrebbe dovuto portare a termine il lavoro”? Perché il più importante memoriale della Shoà in America venisse considerato il luogo adatto per lanciare proteste e insolenze?

Foto di vittime al festival musicale di Re’im

E oggi, che senso ha diffondere le devastanti immagini dei corpi senza vita e dei lettini insanguinati del 7 ottobre? Che senso ha, oggi, sventolare testimonianze esplicite di violenze sessuali fino a restare noi stessi inebetiti da questi orrori, mentre il pubblico a cui ci rivolgiamo rimane sfrontato e indifferente?

Che senso ha affiggere manifesti di vecchi e bambini rapiti quando la gente li strappa con allegria e pretende ulteriori prove? Perché i nostri testimoni vegano derisi e i loro racconti falsati e distorti?

Dove sono le Marysia del XXI secolo?

Una recente campagna sui social network ha suggerito agli ebrei di chiedere: “Mi nasconderesti?”. Ma quale nascondere? Mi chiederesti almeno come me la sto passando?

Mia nonna Manya mi ricordava un’esperienza che aveva avuto durante una visita medica. Mentre si sdraiava, il medico aveva notato il suo accento e aveva correttamente pensato che fosse una sopravvissuta alla Shoà. “Sono molto interessato a sapere – le disse il medico – Qual è la tua storia?”. “Non è una storia – rispose mia nonna sconcertata – E’ la mia vita”.

Per noi, questa non è una storia. Questa è la nostra vita.

Questo momento rende chiaro che mia nonna aveva ragione. In quanto portatori di trauma, non può essere nostra la responsabilità primaria di educare le masse tra cui l’odio verso gli ebrei non è mai stato veramente sradicato: né riguardo alla Shoà, né riguardo agli orrori del 7 ottobre. Non possiamo spenderci per persuadere gli inconvincibili. Non possiamo continuare a tormentarci per la nostra sofferenza non riconosciuta, proprio come non possiamo chiedere scusa per la nostra vita.

Ciò non vuol dire che, come nipote di sopravvissuti alla Shoà, starò zitto. Mi adopererò sempre per mantenere vivi i ricordi dei miei nonni, e i miei. Ma rimarranno, principalmente, per me e per la mia comunità ebraica. Proprio come racconterò ai miei figli della Shoà, un giorno racconterò loro come ci si sentiva ad essere ebreo il 7 ottobre e nei mesi successivi al 7 ottobre. Come hanno fatto i miei nonni per me, praticherò sempre la resilienza per la mia famiglia e per la mia comunità.

Nel corso della storia, noi ebrei siamo stati ghettizzati, demonizzati e siamo stati definiti feccia e parassiti dagli stessi che ci accusano di controllare segretamente tutta la società. Siamo sopravvissuti non perché abbiamo convinto gli altri del nostro valore, ma piuttosto grazie ai nostri valori. Come i sopravvissuti alla Shoà, continueremo a sopravvivere, ogni singolo giorno.

Ma poiché solo noi riterremo sacri i nostri ricordi, forse dovremmo risparmiarci il dolore di tentare, tentare e tentare di convincere qualcun altro ad ascoltare. Forse è giunto il momento di tenere per noi i nostri ricordi, i nostri monumenti e i nostri messaggi.

Perché tanto, comunque, chi ci crederà?

(Da: Forward.com, 28.12.23)