2023, un anno spartiacque. Per Israele, nulla sarà più come prima

L'anno che finisce sarà ricordato come un anno che ha cambiato il corso della storia del paese: gli storici parleranno di un Israele pre-2023 e di un Israele post-2023

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

Ogni paese ha i suoi anni spartiacque, anni che hanno conseguenze di vasta portata e plasmano il percorso della nazione. Israele ne ha avuti diversi. L’anno della sua fondazione, il 1948, fu ovviamente uno di questi. Un altro fu l’anno della guerra dei sei giorni, il 1967, poiché in quella guerra la fulminea vittoria della controffensiva israeliana e la cattura di Gerusalemme, di Giudea e Samaria (Cisgiordania), delle alture di Golan e della penisola del Sinai cambiarono profondamente la nazione. Lo stesso accadde nel 1973, con la guerra dello Yom Kippur; nel 1979, con la firma degli Accordi di Camp David; nel 1993, con la firma degli Accordi di Oslo, e nel 2000, l’anno dell’inizio della seconda intifada (l’intifada delle stragi suicide).

Ciascuno di quegli anni ha visto eventi che segnarono punti di svolta significativi nella storia del paese, momenti che reindirizzarono il corso e la direzione della nazione: alcuni in meglio, altri in peggio. Anche l’anno che sta finendo, il 2023, sarà ricordato come un anno che ha cambiato il corso della storia israeliana. Gli storici probabilmente parleranno di un Israele pre-2023 e di un Israele post-2023.

L’Israele pre-2023 era fiducioso e si sentiva sicuro. Era fiducioso nella propria condizione economica e nelle proprie capacità tecnologiche, e si sentiva sicuro nonostante il suo (turbolento) vicinato. È vero, il terrorismo è sempre rimasto una piaga, ma non veniva considerato una minaccia esistenziale per l’intero paese.

Nell’Israele pre-2023, la sensazione prevalente era che i nemici del paese fossero dissuasi dalla grande forza di Israele, e che non avrebbero mai tentato nulla di “folle” sapendo che, se lo avessero fatto, Israele avrebbe risposto per le rime.

Prima del 2023, Israele credeva – ingenuamente, a quanto si è visto – che i suoi nemici si preoccupassero all’idea di una riposta israeliana devastante: il paese non poteva concepire che i suoi nemici potessero desiderare esattamente quel tipo di risposta (e che a loro non importasse nulla dei prezzi che avrebbe comportato) pur di innescare una guerra religiosa più ampia in tutta la regione, se non in tutto il mondo.

Il mural-mosaico “La via per la pace” creato negli anni scorsi su un muro di protezione anti-cecchini nel moshav israeliano Netiv HaAsara, vicino al confine con la striscia di Gaza

E se prima del 2023 la società israeliana appariva divisa – e lo era – un certo conforto era dato dalla considerazione che le divisioni erano state sempre state una caratteristica della società israeliana, come se facessero parte del suo DNA. Nonostante le divisioni intrinseche complichino parecchio le cose, fino a quest’anno non avevano minacciato il paese, e la solidarietà nazionale è rimasta forte. Divergenze politiche e sociali? Niente di nuovo da queste parti.

Poi è arrivato il 2023 e tutto è stato ribaltato: il senso di solidarietà del paese, la sua stabilità economica, la sua fiducia nell’efficacia del suo potere tecnologico e il suo senso di sicurezza. Soprattutto il suo senso di sicurezza.

Per Israele, il 2023 sarà ricordato come un anno terribile – un annus horribilis, per usare le famose parole della regina Elisabetta – e un anno che ha cambiato significativamente il percorso della nazione, avviandola su un nuovo corso. Non è chiaro esattamente come sarà questo nuovo corso, ma solo che il trauma del 2023 farà sì che in molti ambiti diversi – sicurezza, politica, società – nulla sarà più come era prima.

Se prima del 2023 la sensazione prevalente era che dopo 75 anni Israele fosse finalmente approdato a sponde sicure, che la sua battaglia per la sopravvivenza fosse cosa del passato, poi è arrivato il 2023 e ha spazzato via quel senso di sicurezza. L’anno che finisce, il 2023, è stato quello in cui gli israeliani hanno scoperto che il paese è vulnerabile: pericolosamente vulnerabile. E una nazione che non si sente sicura voterà, stabilirà le sue priorità, calcolerà i rischi e agirà militarmente in modo molto diverso dalla nazione che si sentiva inattaccabile e al sicuro.

Se gli eventi del 2023 dovessero essere trasformati in un film, un titolo appropriato sarebbe Ritorno al passato. Di nuovo, Israele è in guerra. Di nuovo è minacciata la navigazione nel Mar Rosso, proprio come alla viglia della guerra del 1967. Di nuovo, Israele si trova a combattere su più fronti.

Il ministro della difesa Yoav Gallant ha enumerato sei fronti – Gaza, Giudea e Samaria, Libano, Siria, Yemen e Iraq – suggerendo che un settimo fronte, il più significativo di tutti, l’Iran, deve ancora arrivare. Tutto ciò ricorda il 1948, quando Israele dovette combattere per la propria esistenza difendendosi dagli eserciti di parecchi paesi arabi.

Ci sarà chi contesta l’idea che questa guerra contro Hamas – un’organizzazione terroristica che non è nemmeno la più forte con cui Israele deve confrontarsi, un “onore” che va a Hezbollah – sia una guerra per la sopravvivenza di Israele. Ma questo significa guardare alla guerra attraverso una lente molto ristretta. È vero, Hamas, sebbene possa causare danni dolorosissimi a Israele, non è in grado di per sé di distruggere Israele. Dopo tutto, le armi più evolute nel suo arsenale sono granate RPG e razzi e missili non guidati. Ma se Israele non debellerà le capacità di Hamas in modo tale da far riecheggiare in tutta la regione il messaggio chiaro e netto che non è il caso di sfidare Israele e mollargli una sberla sul viso, allora le “sberle” in stile Hamas da parte di altri nella regione andranno avanti all’infinito, nessuno qui potrà più sentirsi al sicuro e dal viso si passerà a tutto il corpo.

Un mural “Portateli a casa subito”, in una strada di Tel Aviv

La guerra attuale è contro Hamas, ma il messaggio che deriverà dall’esito di questa guerra riverbererà in lungo e in largo. Se Israele non arriverà a distruggere la maggior parte delle infrastrutture di Hamas e a determinarne la cacciata dal potere, apparirà debole e accadranno due cose. In primo luogo, i suoi nemici vedranno che Israele è stato indebolito e si sentiranno autorizzati ad attaccarlo. In secondo luogo, i partner attuali e potenziali di Israele nella regione riconsidereranno se la loro alleanza con lo stato ebraico – uno stato che una volta consideravano forte e stabile – valgano tutti i problemi che si tirano addosso in patria, dove l’opinione pubblica non è esattamente dalla parte di Israele.

Le alleanze di Israele nella regione – con paesi come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein – sono state costruite sulla premessa che Israele è l’attore più forte e stabile nella regione. Come ha detto più volte il primo ministro Benjamin Netanyahu, in questa regione sopravvivono solo i forti e nessuno vuole essere amico dei deboli. Se Israele non sconfigge definitivamente Hamas, sarà considerato debole: una percezione che non può permettersi che si diffonda.

L’anno che finisce è un anno in cui si sono avverate cose che pochi immaginavano sarebbero mai accadute, in cui anche le “vacche più sacre” si sono rivelate non essere così sacre, dopo tutto. La comune espressione ebraica lo yachol lih’yot (“non può essere”) è stata messa in crisi, poiché ciò che quasi tutti non pensavano potesse mai accadere, si è rivelato reale.

Il tono dell’anno è stato fissato presto. In effetti, meno di una settimana dopo l’inizio. Il 4 gennaio, il ministro della giustizia Yariv Levin presentava un ampio piano per riformare il sistema giudiziario. Il piano di Levin non era un aggiustamento minore, era una profonda trasformazione. L’idea che il mondo politico non avrebbe mai messo in discussione l’autorità della Corte Suprema – che “vi sono dei giudici a Gerusalemme”, come disse una volta Menachem Begin, e che la loro posizione è sacrosanta – si è rivelata sbagliata.

E questo ha innescato eventi che pochi credevano che avrebbero mai visto: decine di manifestazioni settimanali di centinaia di migliaia di persone; contestazioni degli israeliani contro il primo ministro quando viaggiava all’estero; piloti riservisti che minacciavano di non addestrarsi; soldati riservisti che minacciavano di non presentarsi più per il servizio militare; attacchi senza precedenti da parte di politici contro oppositori e alte personalità; blocchi stradali; “giornate della rabbia” indette, non dai palestinesi, ma da cittadini ebrei (assolutamente non violente); parlamentari che saltavano letteralmente sui tavoli durante le riunioni delle commissioni della Knesset; scioperi e contestazioni di interi settori come l’hi-tech e la sanità; udienze della Corte Suprema trasmesse in diretta mentre discuteva se la Corte stessa abbia o meno giurisdizione per bocciare leggi della Knesset, comprese quelle definite “fondamentali”. Le divisioni sono emerse come non si era mai visto, in un modo che ha portato persone autorevoli a paventare la possibilità di una guerra civile e a lanciare moniti contro il rischio di sangue nelle strade.

Tutto questo durante i primi nove mesi dell’anno, i mesi “buoni” del 2023.

Poi è arrivato il 7 ottobre e, ancora una volta, è accaduto l’inconcepibile. Il paese è stato invaso da un esercito di 3.000 terroristi pesantemente armati e ben addestrati che hanno ucciso, torturato, mutilato, stuprato, saccheggiato, bruciato e rapito come una devastante orda di Unni. La decantata intelligence di Israele è stata colta di sorpresa, l’esercito distratto e impreparato, i politici troppo affaccendati a combattersi fra loro per prestare attenzione alle vere minacce in agguato dietro l’angolo.

Quest’anno sarà ricordato come quello in cui concezioni a lungo date per scontate si sono rivelate completamente sbagliate. Ad esempio: che le liti politiche vengano contenute prima di arrivare al punto di causare danni reali al paese; che si possa fare pieno affidamento sull’intelligence militare e civile per prevenire le minacce; che il paese possa permettersi un esercito ridotto e sofisticato che faccia conto più su spie d’allarme hi-tech che non sulle truppe che mettono gli scarponi sul terreno; che sia possibile chiudere un occhio su ciò che dicono e fanno i vicini genocidi della porta accanto; che i problemi che paiono irrisolvibili possano essere rinviati in continuazione.

Durante un recente discorso, il capo dell’opposizione Yair Lapid ha definito quest’anno “l’anno peggiore nella storia dello stato”. Certo, Lapid non è un osservatore obiettivo. ha svolto un ruolo da protagonista nelle divisioni che hanno lacerato il paese nei primi nove mesi dell’anno. Tuttavia, molti sarebbero d’accordo con la sua valutazione (anche se il 1973 – un anno di sbigottimento simile a quello che Israele ha dovuto affrontare in ottobre – è un forte concorrente per il triste primato).

Ma in termini storici, cosa farà del 2023 un anno di vera svolta? Sarà la capacità di guardare in faccia gli eventi, apprendere la lezione, cambiare direzione: direzione politica, direzione della sicurezza, direzione generale della società.

Una debole luce positiva è che, in una certa misura, ciò sta già accadendo. In seguito al 7 ottobre, gli israeliani sono tornati in sé, hanno tolto le mani dal collo dei fratelli e si sono ricompattati come non si vedeva da decenni. A quasi tre mesi dall’inizio della guerra, le fratture politiche stanno riemergendo. Ma la solidarietà nazionale che stava svanendo prima della guerra – e che è così vitale per Israele per affrontare le sue enormi sfide – è tornata.

Mentre il 2023 si trasforma nel 2024, questo è il cambiamento che potrebbe preludere ad altri cambiamenti, non meno significativi, appena oltre questo tragico tornante. E questi cambiamenti faranno del 2023 un anno di svolta, un anno che resterà sicuramente negli annali come quello che ha cambiato il corso della nazione.

(Da: Jerusalem Post, 29.12.23)