Quando gli arabi accetteranno di dividere la Terra Santa

Per la prima volta dopo il 1947 anche i palestinesi devono fare i conti con il concetto di spartizione.

Da un articolo di Bradley Burston

image_1259Tempo fa, quando una potente esplosione scuoteva il campo palestinese di Jabalya a Gaza uccidendo un esponente di Hamas e il suo figlioletto, tutti sapevano su chi puntare immediatamente il dito: su Israele. Tempo fa, quando un governo entrava in crisi sul concetto di spartizione della Terra Santa, sul futuro stato palestinese, sul governo di unità nazionale, sui confini della Cisgiordania, su un referendum per deliberare su questi temi, tutti sapevano esattamente di quale governo si trattava: di quello israeliano. Tempo fa, quando un taxista brontolava: “se non fosse per i nemici, oggi noi ci staremmo facendo a pezzi a vicenda”, tutti potevano esser certi che si trattava di un taxista israeliano.
Bene, le cose sono cambiate. E anche i palestinesi, che gli piaccia o meno, stanno cambiando. A questo punto i tempi lasciano loro poche possibilità di scelta. Per la prima volta dopo il 1947, i palestinesi devono fare i conti con il principio fondamentale del piano di spartizione. Hamas, una forza di spudorato massimalismo sin dalla sua nascita nel 1987, improvvisamente è sotto pressione interna perché adotti una misura considerata come un implicito riconoscimento di Israele. Il tempo sembrava lavorare sempre a favore di Hamas. Ora si scopre che anche il tempo può passare dall’altra parte. Il denaro, o la mancanza di denaro, per pagare gli stipendi e garantire servizi sociali non è che il primo dei fattori. Il secondo è la guerra civile incombente.
L’altro venerdì uomini armati di Hamas hanno sparato e ucciso un alto ufficiale dei Servizi di Sicurezza Preventiva, organismo dell’Autorità Palestinese strettamente collegato al presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e alla sua Fatah. Il giorno dopo una forza di 2.500 uomini di Fatah veniva schierata a Jenin come un nuovo braccio armato, imprimendo un’ulteriore escalation alle tensioni con Hamas. Più tardi, un comandante minore dell’ala militare di Hamas veniva gravemente ferito da uomini armati, evidentemente nel tentativo di ucciderlo. Due giorni dopo venivano realizzati nella striscia di Gaza altri due attentati ancora più evidenti. A Jabalya una potente esplosione sventrava una casa, uccidendo Ahmed Sari, di Hamas, e suo figlio di otto anni. Poche ore prima uomini con il volto coperto avevano aperto il fuoco su un’auto con a bordo un miliziano di Hamas e la moglie ventenne, incinta all’ottavo mese: uccisi entrambi da una grandine di colpi.
Nel frattempo Abu Mazen si dava da fare per promuovere il “documento dei detenuti”, elaborato in parte dal leader di Fatah ora ergastolano Marwan Barghouti e da esponenti detenuti di Hamas e di altre tre fazioni palestinesi. Con un’insolita miopia verso l’opinione pubblica palestinese (forse il più sicuro segnale della sua transizione a forza di governo), il movimento fondamentalista Hamas rifiutava immediatamente il documento. La settimana dopo, ben l’83% dei palestinesi intervistati in un sondaggio si diceva favorevole ad uno dei punti principali del documento, la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania e striscia di Gaza all’interno dei confini pre-guerra del ’67: clausola generalmente considerata espressione di un implicito riconoscimento di Israele, il passo che Hamas ha cercato in tutti i modi di evitare. Di più, il sondaggio mostrava un netto calo del sostegno per Hamas che invece finora – cioè fino a quando ha assunto le cariche di governo – è stata una delle forze in assoluto più popolari fra i palestinesi. Solo il 37% degli intervistati dichiarava che avrebbe votato per Hamas se si fossero tenute nuove elezioni, contro il 50% di aprile. Nelle elezioni dello scorso gennaio Hamas si era aggiudicata due terzi dei seggi parlamentarmi disponibili.
I palestinesi si trovano oggi di fronte a questioni che ricordano quelle affrontate dal movimento sionista nel 1947, alla vigilia della nascita dello stato di Israele. Allora David Ben-Gurion, leader del partito laburista dell’epoca, sostenne il piano che raccomandava la spartizione della Terra Santa in due stati, uno ebraico e uno arabo. Fu aspramente contrastato dall’intransigente Menachem Begin, comandante del movimento clandestino Irgun Tzvai Leumi, e dal più estremista Lehi, comandato da Yitzhak Shamir. Sebbene fosse per sua natura un massimalista, Ben-Gurion sostenne che era decisamente meglio fondare un piccolo stato nel momento in cui se ne presentava la possibilità piuttosto che tenere duro all’infinito su un ideale ideologico che avrebbe potuto non realizzarsi mai. È un concetto, per il dispiacere di Hamas e di vari altri intransigenti anche in Israele, che oggi anche i palestinesi potrebbero fare proprio.

(Da: Ha’aretz, 11.06.06)

Nella foto in alto: la gente a Tel Aviv la sera del 29 novembre 1947, alla notizia dell’approvazione della spartizione da parte dell’Onu