Stile e sostanza della politica di Netanyahu

La proposta avanzata dal primo ministro israeliano è rivolta ad almeno quattro diversi interlocutori.

Di Yitzhak Klein

image_2961Da quando, lo scorso 26 settembre, è formalmente scaduta la moratoria israeliana delle attività edilizie ebraiche in Giudea e Samaria (Cisgiordania), il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cercato di negoziare una formula che permettesse ai colloqui diretti coi palestinesi di andare avanti. Americani e palestinesi facevano pressione su di lui perché prorogasse il congelamento ancor prima di arrivare a un accordo sui confini, una questione che secondo Netanyahu deve essere rimandata a quando i palestinesi riconosceranno Israele come stato nazionale del popolo ebraico e quando i necessari requisiti di sicurezza saranno garantiti.
L’offerta di sostegno americano da parte del presidente Usa Barack Obama in cambio di un prolungamento della moratoria non ha fatto che mettere in chiaro quanto l’idea di requisiti di sicurezza che ha la Casa Bianca sia diversa da quella che ha Israele. In pratica Netanyahu subiva pressioni a capitolasse sul congelamento degli insediamenti affinché potesse poi capitolare di nuovo nei negoziati veri e propri.
Per due settimane il primo ministro israeliano ha mantenuto il silenzio sulle sue intenzioni. Il silenzio è terminato con il suo discorso all’apertura della sessione invernale della Knesset, lunedì scorso, quando ha svelato la sua posizione e ha offerto uno scambio: una limitata estensione del congelamento in cambio del riconoscimento di Israele da parte palestinese come stato nazionale del popolo ebraico. Offerta, come c’era da aspettarsi, immediatamente respinta da Ramallah.
La proposta di Netanyahu è rivolta in effetti ad alemno quattro diversi interlocutori.
1. La Casa Bianca. La proposta costituisce una dichiarazione di indipendenza. La bilancia di Obama faceva pendere pesantemente la posizione americana a vantaggio dei palestinesi. Gli americani continuano a chiedere a Israele di piegarsi a delle precondizioni come il congelamento in Cisgiordania e Gerusalemme per ottenere l’avvio di negoziati. Fino a quel momento la posizione di Netanyahu era che i negoziati si devono tenere senza precondizioni. Nel suo intervento alla Knesset, ha respinto l’inclinazione della Casa Bianca e ha detto, in pratica, che se Israele deve accettare precondizioni, altrettanto devono fare i palestinesi. Netanyahu ha scelto con cura il suo terreno politico. Nulla può suscitare più simpatia per la posizione di Israele, al Campidoglio e nella comunità ebraica americana, dell’insistere sul fatto che i palestinesi semplicemente prendano atto che Israele è lo stato ebraico. Il loro rifiuto, secco e insolente, risulta incomprensibile alla maggior parte degli americani.
2. La Lega Araba. La dichiarazione di Netanyahu costituisce una sfida a lasciar cadere la questione palestinese e a non permettere più che essa interferisca con la tacita alleanza che sta prendendo forma fra Israele e stati arabi moderati a fronte dell’Iran. Formalmente la Lega Araba appoggia la posizione dei palestinesi sul congelamento, ma è notoriamente maldisposta a sostenere la loro strategia alternativa: una dichiarazione di indipendenza unilaterale. La posizione della Lega Araba può essere interpretata come indifferente al fatto che la questione palestinese sia o meno in via di risoluzione. Il che, ovviamente, scalza quella che dovrebbe essere una delle principali ragioni per cui l’amministrazione Obama preme tanto sulla questione palestinese: ingraziarsi il mondo arabo.
3. Il partito laburista israeliano. La politica laburista è sempre più attaccabile dagli ideologi puristi per i quali il “processo di pace” deve continuare a qualunque costo. Per questo il partito laburista minaccia di uscire dalla coalizione di Netanyahu se i negoziati dovessero interrompersi. Il terreno politico scelto da Netanyahu è ancora più efficace all’interno di Israele che a Washington. Se il partito laburista o Kadima vogliono andare alle elezioni sul fatto che Israele non dovrebbe insistere per essere riconosciuto come stato nazionale ebraico, che s’accomodino pure.
4. Mahmoud Abbas (Abu Mazen). In pratica Netanyahu ha detto: “Che vada al diavolo”. In generale Netanyahu non è un politico incline allo scontro. Come la maggior parte dei primi ministri, deve impiegare una smodata quantità del suo tempo per tenere insieme la coalizione. Deve farsi in quattro per trovare soluzioni negoziate. Per garantirsi il massimo margine di manovra possibile, tiene la bocca chiusa e le carte coperte. E c’è sempre qualcuno che lo accusa di non avere coraggio né principi. La grande differenza fra il Netanyahu di oggi e il Netanyahu che venne eletto nel 1996 è che ora sembra aver sviluppato la capacità di intuire quando non gli rimane altra scelta che reagire e contrattaccare.

(Da: Jerusalem Post, 13.10.10)

Nella foto in alto: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante l’intervento di lunedì all’apertura della sessione invernale della 18esima Knesset