70esima Giornata dell’Indipendenza: sfide formidabili, segnali di cambiamento

Israele continua a essere preso di mira dalla demonizzazione, ma molte cose stanno cambiando rispetto anche a solo a pochi anni fa

Editoriale del Jerusalem Post

Mentre Israele festeggia giovedì il suo 70esimo compleanno (secondo il calendario ebraico), un po’ di ottimismo è d’obbligo, pur nella piena consapevolezza delle tante sfide che attendono il paese.

L’espansionismo di Teheran, che può essere visto come il riempimento del vuoto lasciato dal ritiro americano dalla regione sotto l’ex presidente Barack Obama, si è tradotto in una presenza militare iraniana ai confini settentrionali di Israele. Amir Eshel, ex comandante dell’aviazione israeliana, ha recentemente rivelato che i raid compiuti da Israele in Siria a partire dal 2012 per impedire all’Iran di contrabbandare armi micidiali a Hezbollah in Libano, o per altri obiettivi difensivi, si avvicinano ad un numero a tre cifre. Martedì scorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che i servizi di sicurezza israeliani sono mobilitati per sventare tentativi iraniani di colpire diplomatici israeliani all’estero. Mentre il presidente americano Donald Trump manifesta l’intenzione di ritirare le sue truppe dalla Siria e quello russo Vladimir Putin non può o non vuole tenere a freno l’Iran, uno scontro tra Israele e Repubblica islamica sembra quasi inevitabile.

Ma il quadro non si esaurisce qui. Le pesanti ingerenze dell’Iran nella regione hanno prodotto un radicale riallineamento degli interessi in campo. In un passato non troppo lontano, una persona seria come il Segretario alla difesa Usa James Mattis, che nel 2013 era a capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, affermava che la percepita parzialità dall’America a favore di Israele nel conflitto con i palestinesi significava per gli Stati Uniti “pagare un prezzo in fatto di sicurezza militare” giacché – sosteneva – nessuno degli stati arabi “moderati” avrebbe potuto prendere pubblicamente posizione a sostegno degli americani visto che sembravano “non portare rispetto agli arabi palestinesi”.

Oggi, invece, i presunti effetti dannosi del conflitto israelo-palestinese (o della “intransigenza israeliana”, come ebbe a definirla nel 2010 il predecessore di Mattis a capo del Comando Centrale, David Petraeus) impallidiscono a confronto di ciò che gli arabi “moderati” giustamente percepiscono come le vere minacce contro di loro: l’Iran e varie forme di islamismo jihadista sunnita, dall’ISIS ad Qaeda ai Fratelli Musulmani.

L’inizio delle celebrazioni di Yom Ha’Azmaut 2018. In primo piano, la Knesset (il parlamento israeliano a Gerusalemme)

Oggi paesi come l’Arabia Saudita, la Giordania e l’Egitto condividono con Israele l’obiettivo di contenere l’Iran e di combattere gli islamisti in Siria, in Libano, nella penisola del Sinai e lungo i confini della Giordania. Cosa ancora più importante, riconoscono il contributo cruciale di Israele, la più forte potenza militare nella regione, nel perseguire questi obiettivi. Ovviamente non si deve fare confusione fra obiettivi comuni e valori comuni. Israele non ha niente a che vedere con Arabia Saudita ed Egitto per quanto riguarda libertà e diritti umani. Ma possono esserci vantaggi strategici in una cooperazione circoscritta.

Israele continua a essere preso di mira dalla demonizzazione nei forum diplomatici, in campo legale, nei mass-media. La collaborazione a dir poco bizzarra fra progressisti occidentali e oscurantisti islamisti violentemente reazionari consente alle menzogne su Israele di circolare indisturbate. Ma ci sono segnali di cambiamento. Ad esempio, sono apparse tiepide e solo di facciata le critiche di paesi come Egitto e Arabia Saudita al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele, e persino alla gestione israeliana degli scontri istigati da Hamas lungo il confine con la striscia di Gaza.

L’inizio delle celebrazioni di Yom Ha’Azmaut 2018 in piazza Rabin, davanti al municipio di Tel Aviv

Intanto l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu Nikki Haley è emersa come un’infaticabile paladina della verità. In ogni occasione sottolinea a voce alta l’ipocrisia delle Nazioni Unite che condannano continuamente Israele mentre ignorano i veri crimini contro l’umanità perpetrati da altri stati membri. Gli europei, dal canto loro, alle prese con ondate di immigrazione provenienti da paesi prevalentemente musulmani, hanno iniziato a capire meglio il tipo di problemi che Israele si trova ad affrontare. E che l'”occupazione” israeliana della Cisgiordania non è la causa dell’estremismo politico palestinese, che si tratti dell’islamismo sanguinario di Hamas a Gaza o della corrotta Fatah che in Cisgiordania si rifiuta di porre fine agli incentivi economici all’assassinio di israeliani. L’estremismo e l’intransigenza palestinesi rientrano piuttosto in una crisi ben più profonda e generale che colpisce l’islam e il mondo arabo.

A livello nazionale, infuria in Israele un vivacissimo dibattito su quale sia il giusto equilibrio fra i rami legislativo, esecutivo e giudiziario. Dato il conflitto irrisolto con gli arabi palestinesi (e con tanta parte del mondo islamico) e la tendenza – in uno stato dichiaratamente ebraico nato dopo la Shoà – a tutelare i diritti degli ebrei, riteniamo che un forte ramo giudiziario sia essenziale per preservare la democrazia sostanziale del paese. È incoraggiante constatare che non solo all’opposizione, ma anche fra le forze dell’attuale coalizione di governo ci sono difensori delle prerogative della Corte Suprema come il leader di Kulanu Moshe Kahlon e ministri del Likud come Tzachi Hanegbi.

Nel momento in cui celebra il 70esimo anno dalla sua fondazione, lo stato d’Israele deve senz’altro fare i conti con formidabili sfide, ma si può serenamente affermare che è in una posizione migliore che mai per affrontarle con impegno, e continuare a prosperare.

(Da: Jerusalem Post, 18.4.18)