Al confine con Gaza (e con l’Iran)

Analisi a caldo della situazione, mentre continuano ad abbattersi su Israele razzi e missili dei terroristi

Yaakov Katz

Scrive Yaakov Katz: L’attacco aereo israeliano che ha ucciso un comandante terrorista della Jihad Islamica nella striscia di Gaza porta con sé diversi messaggi indirizzati a Hamas, all’Iran e alla Siria. Pochi minuti dopo il raid dell’aeronautica militare sulla camera dove pernottava Bahaa Abu al-Atta, a Gaza, un’altra esplosione veniva segnalata a Damasco nella casa del vice capo della Jihad Islamica, il gruppo che ha il suo quartier generale nella capitale siriana. Israele non ha rivendicato, e non è chiaro se Akram Al-Ajouri sia rimasto ucciso o ferito nell’esplosione. Come che sia, Israele sta affermando molto chiaramente che tutta la Jihad Islamica è nel suo mirino ed è considerata bersaglio legittimo. Nessuno può considerarsi al di fuori della portata della difesa israeliana. Al-Atta era in cima alla lista almeno da settembre quando la Jihad Islamica lanciò una raffica di missili contro Ashdod mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu vi si trovava per una manifestazione elettorale. Ed è ancora Al-Atta quello che la notte di venerdì scorso ha ordinato il lancio di un’ennesima raffica di razzi su Israele. Era solo una questione di tempo prima che Israele regolasse i conti con lui. Quello che succederà dopo dipenderà dalla Jihad Islamica e da Hamas. Se la Jihad Islamica continuerà a lanciare missili contro Israele e Hamas si unirà agli attacchi, Israele intensificherà il proprio contrattacco. Negli anni successivi alla guerra anti-Hamas dell’estate 2014, Israele ha accumulato un impressionante elenco di potenziali obiettivi che può colpire nel caso in cui questo ciclo di violenza si intensifichi.

Il capo terrorista della Jihad Islamica Bahaa Abu al-Atta (nel cerchio)

Poi c’è l’Iran. Israele è all’erta da molte settimane per la possibilità che Teheran lanci un attacco con missili da crociera e droni killer simile a quello che ha effettuato contro una raffineria di petrolio saudita due mesi fa. Quell’aggressione iraniana è rimasta senza risposta da parte dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, e Israele ritiene che la Repubblica Islamica possa essere tentata di fare qualcosa di simile contro lo stato ebraico. Quello che Israele ha dimostrato martedì è che non se ne sta fermo ad aspettare, e che non è affatto paralizzato dalla paura di quello che l’Iran potrebbe o non potrebbe fare. Il principale protettore della Jihad Islamica è l’Iran, e la maggior parte del sostegno finanziario del gruppo jihadista palestinese proviene dagli ayatollah di Teheran. Uccidere uno dei suoi principali comandanti sul campo a Gaza e allo stesso tempo – presumibilmente – colpirne un altro a Damasco dimostra che Israele è pronto ad assumersi i rischi necessari pur di difendere i propri cittadini.
(Da: Jerusalem Post, 12.11.19)

Seth J. Frantzman

Scrive Seth J. Frantzman: L’Iran è uno stretto protettore, rifornitore e finanziatore della Jihad Islamica palestinese. Considera questo gruppo terrorista come uno dei suoi numerosi gregari e alleati attivi nella regione. A differenza di altri gruppi, la Jihad Islamica palestinese a Gaza è composta da arabi sunniti, mentre l’Iran di solito opera con gregari sciiti come Hezbollah. Ma la Jihad Islamica palestinese è importante per l’Iran perché il regime di Teheran si presenta spesso e volentieri come il fulcro della “resistenza” contro Israele e Stati Uniti. Per imbastire questa narrazione di “resistenza” deve dimostrare che fa effettivamente qualcosa contro Israele. Dato che all’Iran non piace sacrificare i membri del proprio Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica, dunque agisce per mezzo di altri gruppi. In Libano arricchisce l’arsenale di Hezbollah con missili di precisione, a Gaza intrattiene stretti rapporti con la Jihad Islamica palestinese e anche con Hamas.

La Jihad Islamica sa bene che ora insistere coi lanci può sfociare in un conflitto più ampio. Anche Hamas lo sa e ha cercato sin da martedì mattina di tenersi fuori dal conflitto, tentando di calcolare cosa accadrà in seguito. Dal momento che i mass-media siriani segnalano un raid su un altro capo della Jihad Islamica a Damasco, i calcoli vanno fatti in un quadro più ampio. Tuttavia, i mass-media filo-iraniani sembrano imbarazzati di fronte ai resoconti da Gaza, forse perché non vogliono ammettere che il loro alleato locale è in difficoltà. Ad agosto, Israele ha colpito vicino al Golan una squadra che operava “droni killer” collegata a Iran e Hezbollah. A settembre le milizie sciite a Damasco hanno tentato invano di sparare un razzo contro Israele. Le tensioni sono evidenti, ma l’Iran deve affrontare altre sfide in Siria e Iraq. Vuole reprimere le proteste anti-iraniane in Iraq e teme che gli Stati Uniti possano rimanere nel paese. Anche Hezbollah deve affrontare le proteste in Libano.

Scrivo mentre mi trovo vicino al confine con Gaza, nei pressi di un rifugio in cemento colorato con scene bucoliche. La minaccia iraniana sembra lontana e invece è sempre qui, ben presente. Ma per il momento i campi agricoli non sono ancora solcati dai carri armati Merkava come avveniva nell’estate 2014. I soldati israeliani ostentano nonchalance. Ma anche loro sono svegli dalle prime ore del mattino, al suono continuo delle sirene. Tutti aspettano gli sviluppi.
(Da: Jerusalem Post, 12.11.19)

Avi Issacharoff

Scrive Avi Issacharoff: La responsabilità per l’eliminazione di Bahaa Abu al-Atta, il comandante dell’ala militare del gruppo terroristico Jihad Islamica palestinese, ricade interamente su una sola organizzazione: Hamas. I capi di Hamas a Gaza facevano conto di essere completamente estranei allo scontro implacabile alimentato contro Israele da Abu al-Atta e dai suoi sodali. Ma il suo ostinato rifiuto di intervenire, la sua determinazione a ignorare gli avvertimenti di Israele riguardo al ruolo centrale svolto da Abu al-Atta nel lancio di missili e nel pianificare attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, alla fine hanno portato all’esito inevitabile: il fomentatore seriale con base a Gaza è stato eliminato nella sua casa di Shejaiya in un raid nelle prime ore di martedì mattina. La morte di Abu al-Atta era solo questione di tempo. L’uomo non faceva che provocare Israele, Hamas e l’Egitto. Continuava a orchestrare attacchi, in alcuni casi ci riusciva, ed era coinvolto nella progettazione di attentati ancora più ambiziosi, sventati appena in tempo. E tutto questo oltre ai lanci di razzi. Israele aveva abbondantemente diffuso le sue fotografie, ma ciò non aveva fatto che rafforzare la sua immagine di eroe locale. Era stato convocato al Cairo, ma non aveva prestato la minima attenzione alle intese con l’Egitto benché l’intelligence egiziana avesse liberato dalle prigioni decine di attivisti della Jihad Islamica. Dopo essere stato in Iran ad addestrarsi, aveva fatto ritorno nella striscia di Gaza. Eppure non era del tutto controllato nemmeno da Teheran. Al-Atta aveva la sua agenda, che mirava a promuovere il suo status all’interno della Jihad Islamica e a rafforzare il gruppo rispetto a Hamas. Non ci sarebbe da stupirsi se a Gaza fossero già pronti da tempo i poster con la foto di Abu al-Atta e il solito testo che annuncia la sua morte come “martire”.

Abitazione israeliana colpita da razzi palestinesi a Sderot

Hamas si rifiutò fermamente di intervenire, consentendogli di orchestrare ripetute raffiche di razzi che, in varie occasioni, non avevano più nemmeno un falso pretesto. Direttamente e indirettamente – tramite pubblicazioni su vari mass-media, messaggi trasmessi dall’intelligence egiziana, avvertimenti per mezzo di mediatori internazionali – Israele ha ripetutamente esortato Hamas ad agire. Ma l’assunto di Hamas, e del suo capo Yahya Sinwar, era che Israele nella sua attuale situazione fosse così preoccupato dalla prospettiva di un’escalation che si sarebbe astenuto, almeno per il momento, dallo sferrare un colpo mirato contro il capo terrorista. Si sbagliava.

A Hamas conveniva ignorare le attività di Abu al-Atta anche perché non voleva essere dipinta come un agente contro la “resistenza” o contro il suo principale concorrente a Gaza, la Jihad Islamica. Ora che Abu al-Atta è stato eliminato, Hamas deve affrontare un serio dilemma. Non vuole una grande escalation con Israele, dato che la situazione a Gaza sta migliorando un po’: la fornitura di elettricità è migliorata, il valico di frontiera di Rafah è aperto a un notevole flusso di scambi commerciali con l’Egitto, e l’immagine di Hamas presso il pubblico palestinese sta migliorando rispetto all’indebolimento di Fatah. Il problema è che la Jihad Islamica è fortemente determinata a reagire, non solo all’eliminazione di Abu al-Atta a Gaza, ma anche all’altra (misteriosa) azione di martedì a Damasco contro un altro suo comandante, Akram Ajouri. Se Hamas cercherà di fermare la Jihad Islamica in questa fase sarà accusata di collaborare con Israele. Ma se consentirà alla Jihad Islamica di scatenarsi è probabile che ciò condurrà a una dura risposta israeliana, che a sua volta coinvolgerebbe Hamas. E molto rapidamente Hamas e Israele si ritroverebbero in un conflitto diretto come nell’estate del 2014. La domanda è se Hamas sarà abbastanza assennata da reprimere la violenza dei suoi concorrenti interni. Senza dubbio i negoziatori tradizionali – l’emissario delle Nazioni Unite Nikolay Mladenov, quello del Qatar Muhammad al-Amadi e, naturalmente, l’intelligence egiziana – intensificheranno gli sforzi per calmare le cose, chiedendo a Hamas di fare la parte dell’adulto responsabile che interrompe l’escalation. Ma con incidenti come questo, è sempre facile capire come iniziano e molto più difficile vedere come possono finire.
(Da: Times of Israel, 12.11.19)