Claude Hagège

Una piccola storia della lingua ebraica come risposta alla globalizzazione su morte e rinascita delle lingue.

image_141Quella benedetta babelica confusione delle lingue.

Una piccola storia della lingua ebraica come risposta alla globalizzazione

Su Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità

di Claude Hagège, trad. di L. Cortese, Feltrinelli

Molto è stato scritto sul fatto che l’ebraico non è mai stato una lingua morta e che quindi il termine “rinascita” applicato alla lingua ebraica sia improprio. Sull’argomento il lettore italiano ha a disposizione un libro conciso e ben fatto, la Storia della lingua ebraica di Mireille Hadas-Lebel (Giuntina, Firenze 1994). Ma è interessante riconsiderare la storia di questa lingua da un altro punto di vista, quello della difesa contro l’omologazione e il predominio della lingua inglese, quello, secondo le parole dell’autore, della difesa non solo della propria cultura, bensì della propria vita (p. 8). Hagège riporta le parole di un famoso scrittore ungherese, Kosztolányi, che meritano di essere trascritte: «Le lingue artificiali ci consentono di indicare il nostro domicilio, la nostra professione e la consistenza del nostro conto in banca, ma si rivelano pressoché impotenti a definire la ninnananna che ci cantava nostra madre o l’accenno di sorriso con cui la donna che amiamo si accomiata da noi. Insomma, possono dire tutto ciò che non merita di essere detto.[…] Oggi coloro che si divertono a predire il futuro […] amano ripetere che […] le lingue nazionali sono destinate a scomparire, perché un giorno dovranno lasciare il posto a una lingua universale unica […]. Destinata a essere per tutti, la lingua universale non sarebbe di nessuno […]. Certo sono rassegnato a scomparire, un giorno. Ma non accetto l’idea che quel frammento della mia spiritualità costituito dalla lingua materna si annienti a sua volta e che, dopo la mia morte, le parole cui ho dato respiro […] cessino di fluttuare al di sopra della mia tomba. Esse rappresentano la parola dell’anima, la parola della comunità familare che sfida la morte.» [In Hagège, p. 15].

Le lingue prese in esame in questo studio sono varie e vanno dal maori all’hawaiano al gaelico scozzese, ma per quanto riguarda l’ebraico, secondo Hagège siamo di fronte a un caso molto particolare, in cui l’ideologia ha svolto un ruolo fondamentale e che può essere preso di esempio dai parlanti di altre lingue. Nelle parole di Benjamin Harshav la vicenda dell’ebraico a partire dalla seconda metà dell’800 è quella di «una ideologia che ha creato una lingua che ha forgiato una società che è diventata uno Stato» [si veda il suo bellissimo libro Language in Time of Revolution, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 1993, p. VIII]. La “rinascita” dell’ebraico, o meglio, il ritorno dell’ebraico come lingua parlata, come lingua della comunicazione quotidiana, di fatto è stata percepita come un evento miracoloso, un fatto senza precedenti ed è oggi più che mai al centro di un dibattito molto vivace: la lingua parlata, nel suo percorso verso la “normalità”, da un lato si arricchisce continuamente di uno slang variegato, dall’altro si allontana sempre di più dalla lingua scritta e, soprattutto, dal suo rapporto con i testi ebraici della Tradizione. È a questo proposito che Hagège riporta una famosissima lettera scritta da Gershom Scholem a Franz Rosenzweig nel 1926, dandone però un’interpretazione sulla quale dissento. Scholem si lamentava con l’amico tedesco proprio del fatto che il processo di laicizzazione della lingua era un fenomeno pericoloso, perché distruggeva le radici “religiose” delle parole. Il discorso è molto complesso. I testi della Tradizione ebraica, dalla Bibbia ai commentari rabbinici, dal Talmud alle raccolte di midrashim, dai componimenti poetici ai testi filosofici, fino ai libri di morale e alla vastissima letteratura chassidica, non possono essere bollati semplicemente come testi “religiosi”, rappresentano invece la fonte della vita spirituale e intellettuale ebraica attraverso i secoli. L’opera di Ben Yehuda, il cosiddetto “padre” dell’ebraico moderno, era stata quella di laicizzare la lingua, staccandola dalle sue radici, secondo quella che giustamente Harshav ha definito come una vera e propria rivoluzione, forse uno dei mutamenti più forti tra quelli avvenuti all’interno della storia ebraica. Quello che Scholem condanna non è affatto l’uso dell’ebraico come lingua parlata, come afferma Hagège, bensì l’impoverimento e il cancellamento di un’intero ricchissimo preziossimo passato, l’incapacità dei parlanti di avvertire gli echi dietro alle parole, i riferimenti dietro alle citazioni. Ecco un passo della lettera: «Tra le parole ebraiche, tutte quelle che non sono neologismi sono gravide di significati fino a scoppiarne. Una generazione come la nostra, che si riprende in carico la parte più feconda della nostra tradizione, intendo la sua lingua, non potrà vivere senza tradizione.» [Citato in Hagège, p. 222].

Resta il fatto che in un periodo in cui, secondo diversi linguisti, molte lingue corrono il pericolo di estinguersi, è giustissimo sollevare questo problema. Il libro si conclude con la seguente affermazione: «la minaccia di morte che grava sulle lingue assume oggi il volto dell’inglese» [p. 254] e vorremmo concludere anche noi ricordando che questo pericolo viene corso anche dall’ebraico israeliano, per quanto la sua storia sia stata finora quella di essere una lingua controcorrente. Il monito di Hagège non risparmia nessuno.