Decostruire la demonizzazione del “colono”

Agli odiatori di Israele può dispiacere ammetterlo, ma tutti prima o poi siamo stati coloni (compresi gli arabi in Medio Oriente)

Di Benjamin Kerstein

Benjamin Kerstein, autore di questo articolo

Di questi tempi le parole “insediamento” e “colono” hanno assunto connotazioni decisamente sgradevoli. Non mi riferisco solo ai discorsi su Israele e sionismo, dove i “coloni” in Giudea e Samaria sono abitualmente dipinti nei termini più negativi possibili. Su scala globale, “insediamento” e “colono” sono diventati non solo termini dispregiativi, ma sinonimi del male assoluto.

Bisogna dire che vi sono alcune buone ragioni. Il paradigma dominante “post-colonialista” vede l’insediamento come intrinsecamente colonialista, imperialista e spesso genocida: cioè la brutale oppressione delle popolazioni indigene di colore da parte degli imperi occidentali bianchi. E in effetti, spesso è stato proprio così.

Ora, grazie ai portentosi sforzi dei nemici di Israele, gran parte dell’élite mondiale è giunta ad applicare questo paradigma post-colonialista allo stato ebraico. Israele, affermano, è una società “colonialista di insediamento” creata da conquistatori stranieri che hanno rubato e continuano a rubare la terra di “Palestina” alla popolazione indigena.

Un gran numero di persone ha trattato in modo piuttosto sommario queste accuse, e non starò a ripetere qui le loro argomentazioni. Noterò, tuttavia, che una volta che si inizia a smontare il paradigma post-colonialista – con la sua dicotomia metafisica fra “colono” e “indigeno” – le cose diventano molto più problematiche di quanto sembri a prima vista.

Ad esempio, si potrebbe sostenere che, ad eccezione di una piccola quantità di africani subsahariani, nessuno è indigeno da nessuna parte. La teoria secondo cui diverse specie di Homo Sapiens sarebbero spuntate più o meno dal niente qua e là in varie parti del mondo – la teoria che fu alla base del razzismo dei secoli XIX e XX – è stata completamente smentita. È ormai universalmente accettato che l’Homo Sapiens è nato in Africa e poi, in gran parte spinto da cambiamenti climatici, si è diffuso in tutto il mondo. Ciò significa che, se usiamo il paradigma dei post-colonialisti, più o meno tutti siamo coloni o discendenti di coloni. L’insediamento è il mezzo con cui l’Homo Sapiens si è affermato come specie globale e senza di esso l’umanità come la conosciamo non esisterebbe.

Moneta romana del I sec e.v. con la scritta “Judaea capta” (“La Giudea è conquistata”). L’Impero Romano, mediante la conquista e la pulizia etnica, espropriò gli ebrei della loro “indigenità”

Inoltre, se usiamo il termine “indigeno” per indicare un popolo presente in un unico luogo da moltissimo tempo, allora ci troviamo di fronte a un notevole paradosso: per essere indigeni bisogna essere stati coloni. Lo si può vedere molto chiaramente, per ironia della sorte, proprio nella storia del Medio Oriente. Nonostante la presenza di popoli precedenti come ebrei, curdi e berberi, ormai viene dato per scontato che il Medio Oriente sia per definizione arabo. Tuttavia, ad eccezione dell’Arabia Saudita, l’intera presenza araba in Medio Oriente è il risultato di un insediamento. Gli eserciti arabi proruppero dall’Hejaz nel VII secolo e.v., conquistarono l’intero Medio Oriente e il Nord Africa e parti dell’Europa e li “arabizzarono” con mezzi coloniali. Non c’è nulla di singolarmente malvagio in questo. Tutti gli imperi sono stati costruiti esattamente allo stesso modo. Nondimeno è così che stanno le cose, è materia agli atti della Storia.

Se accettiamo questo più complicato paradigma di insediamento e indigenità, possiamo vedere che gli ebrei rappresentano un caso insolito, forse unico. I loro antenati arrivarono nella Terra d’Israele, probabilmente in epoca preistorica, come coloni e poi divennero “indigeni”. Alcune migliaia di anni dopo l’Impero Romano, mediante la conquista e la pulizia etnica, espropriò gli ebrei di questa “indigenità” e si prese la loro terra. Dopo di allora, la lunga storia degli ebrei è stata quella in cui hanno vissuto nella perpetua speranza di rivendicare quell’indigenità. Ma per il paradosso insito nel paradigma, si sono trovati costretti a ripercorrere da capo l’intero processo storico. Ad eccezione della residua comunità ebraica che non se n’era mai andata, gli ebrei  per reclamare la loro indigenità dovettero dapprima diventare coloni e poi tornare ad essere indigeni. Non avevano altra scelta, giacché nessuno ha un’altra scelta.

La questione, quindi, non è se gli ebrei israeliani siano coloni o discendenti di coloni. Tutti in Terra d’Israele, ebrei e non ebrei, sono coloni o discendenti di coloni. Non può essere diversamente. Quindi la virulenza del discorso dei post-colonialisti e degli anti-sionisti non è semplicemente sbagliata: è irrilevante. Il principio a cui si appellano non è ciò che è in gioco.

Ciò che è in gioco è la questione più essenziale di cosa dovrebbero fare esattamente gli ebrei. Vi sono solo due opzioni: rimanere in esilio oppure emanciparsi ripercorrendo un processo antico e inevitabile, comune a tutti i popoli del mondo. Le forze pro-esilio si rifiutano di riconoscere questo dilemma, che in realtà non è affatto un dilemma. Nessuno al mondo, per quanto appassionatamente possa affermare il contrario, crede che sia desiderabile la condizione di stare in esilio alla mercé del potere altrui. Noi ebrei siamo tante cose, ma non siamo stupidi e non accetteremo per noi ciò che il resto del mondo non accetterebbe mai per sé. E di sicuro non lo faremo sulla base di principi non solo tendenziosi e insolenti, ma contraddetti dall’intera storia del genere umano.

(Da: jns.org, 14.11.22)