Destra e sinistra, in versione israeliana

Continua il dibattito intorno all’analisi del risultato elettorale.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3649Scrive Shlomo Kraus, su YnetNews: «Ora salta fuori che la gente non è diventata più di destra o più estremista, e che la sinistra non è scomparsa. La gente è la stessa solo che, mentre il blocco della destra è riuscito a stabilizzarsi politicamente e ad unirsi, il blocco della sinistra continua a frammentari ed è ancora alla ricerca di una leadership, senza riuscire a tradurre la piazza in partito di governo. La rinascita ideologica della sinistra, iniziata un anno e mezzo fa, ha riportato in primo piano i temi socio-economici e ha ricondotto l’importanza del processo diplomatico al suo livello naturale. Questa rinascita continuerà a svilupparsi. Qualcuno ancora la considera un “tradimento” storico, ma questo in realtà è sempre stato l’approccio della sinistra moderata sin dall’assassinio di Rabin: una pace pragmatica, non ideologica. Per la prima volta in quasi trent’anni la sinistra ha qualcosa da offrire con la sua ideologia sociale, senza lasciarsi definire unicamente sulla base della sua opposizione agli insediamenti. La strada per porre fine all’occupazione inizia dalla riabilitazione e riformulazione dell’identità nazionale e democratica d’Israele, non il contrario. Per quanto riguarda la destra, se questo è il massimo di gente che è riuscita ad affascinare, il suo futuro è in discussione. Benché tutte le condizioni fossero a suo favore, il Likud è arretrato di più di un quarto. Nonostante una campagna brillante e senza vera concorrenza, Casa Ebraica (Habayit Hayehudi), di Naftali Bennet, non è riuscita a battere il record storico del 1977 del partito nazional-religioso Mafdal, (12 seggi). Alla fine dei conti, Netanyahu rimane per il momento l’unico leader e il Likud l’unico partito stabile. D’altra parte, il risultato elettorale garantisce che il prossimo governo sarà più moderato, democratico e più in contatto con la gente sulla via di un cambiamento più profondo. C’è persino la possibilità che non si limiti a sopravvivere, ma che riesca anche a prosperare. Il partito laburista è bene che resti all’opposizione e continui il processo di riabilitazione, fino alla formazione di un blocco stabile e unito che alle prossime elezioni possa aggregare tutti i seggi sparpagliati sulla sinistra. Il risultato delle elezioni dimostra che ci sono ancora molti elettori di mente aperta, alla ricerca di una casa politica e molto meno intolleranti ed estremisti di come vengono descritti (il fallimento di Otzma LeIsrael parla da solo). Più di metà dei parlamentari della 19esima Knesset sono volti nuovi, e in grande maggioranza si tratta di persone degne e oneste. Anche l’aumento delle parlamentari donne è uno sviluppo positivo. Il cambiamento politico che ha avuto inizio con le proteste sociali dell’altra estate è ancora in corso, ma bisogna sempre ricordare che non esistono rivoluzioni istantanee, bensì processi. E questo processo ci sta portando nella direzione giusta».
(Da: YnetNews, 26.1.13)

Scrive il Jerusalem Post: «Le definizioni di destra e sinistra, in Israele, sono del tutto particolari. Il mondo usa questi nostri termini senza capire bene cosa significhino, trattandoli erroneamente come se la destra indicasse i nostri conservatori e la sinistra i nostri “liberal”. Ma queste categorie mal si adattano al lessico politico israeliano. Le nostre peculiari classificazioni ruotano attorno all’attitudine rispetto agli insediamenti nella Terra d’Israele storica, alle concessioni territoriali e alla creazione di uno stato palestinese. In base alle categorie israeliane, la destra moderata ha vinto ancora una volta le elezioni, specie se non si considera il nuovo partito Yesh Atid, di Yair Lapid, come una formazione automaticamente di sinistra, cosa che gli analisti politici tendono a fare senza sufficiente fondamento. Ma tutto questo ha poco a che fare con le classiche divisioni in uso all’estero, legate agli orientamenti socio-economici. Se ci atteniamo ai criteri comuni negli altri paesi, emerge un quadro assai diverso rispetto alla lettura superficiale che va per la maggiore. È di moda affermare che il risultato elettorale israeliano riflette i sentimenti delle proteste sociali del 2011. Ma gli slogan di quei manifestanti erano molto estremisti, inequivocabilmente anti-capitalisti, anti-privatizzazioni e politicamente ostili al primo ministro Benjamin Netanyahu. Ma le elezioni di settimana scorsa non riflettono nulla del genere. I veri anti-capitalisti si trovano, in parte, fra i laburisti, nel Meretz e in Hadash: un blocco che, nel suo complesso, ha avuto un risultato elettorale come minimo poco brillante, confermandosi un segmento marginale dell’opinione pubblica. La grande sorpresa del voto, Yesh Atid, ha chiaramente puntato ai voti del ceto medio con un messaggio duro contro burocrazia, carovita, eccessiva pressione fiscale ecc. Innegabile una forte vena populista, ma tutte le parole d’ordine di Yesh Atid ricadono pienamente e inequivocabilmente entro i limiti dell’economia di libero mercato. In questo senso gli slogan di Lapid non erano né vaghi né elusivi. E non sono in contraddizione con quelli di Netanyahu. Un duo che non incontrerà opposizione nella sfera socio-economica da parte di Casa Ebraica (Habayit Hayehudi), che dovrebbe essere la componente più a destra – in termini prettamente israeliani – della ipotetica coalizione di governo. Se consideriamo queste tre formazioni come i probabili pilastri della coalizione in fieri, abbiamo a che fare con una aggregazione incontrovertibilmente a favore della libera impresa e delle politiche per la crescita economica. Un orientamento che non verrebbe che confermato se alla fine salissero a bordo anche partiti ridotti ai minimi termini come Kadima o il Movimento di Tzipi Livni. Se qualcosa ha dimostrato la campagna appena conclusa, è che l’elettorato israeliano non si preoccupa granché di ciò che ossessiona il resto del mondo: i territori, uno stato palestinese, il presunto e moribondo processo di pace. Probabilmente una parte considerevole dei cittadini israeliani (con l’eccezione forse dei sostenitori di Livni e Meretz) ha di fatto rinunciato alla prospettiva di negoziati positivi con l’Autorità Palestinese. A differenza delle campagne precedenti, gli elettori si sono concentrati sui temi interni. Questo è il mandato essenziale che hanno dato ai loro rappresentanti: sistemare le cose all’interno dello stato ebraico, più che concentrarsi sullo stato palestinese».
(Da: Jerusalem Post, 26.1.13)

Scrive Sergio Della Pergola, su Moked: «La caduta di Bibi Netanyahu da 42 a 31 seggi ha stupito quasi più della folgorante ascesa di Yair Lapid da 0 a 19. Per meglio capire la radiografia della politica israeliana, al di là dei dettagli delle liste e dei personaggi, conviene esaminare i flussi elettorali rispetto alle elezioni del 2009. Se dividiamo il campo esageratamente frazionato dei partiti in quattro aree politiche principali, vediamo che i partiti religiosi-haredim (Shas e Yahadut Hatorah) passano da 16 a 18 seggi – un guadagno di 2; i partiti Arabi (Hadash, Ram-Tal, Balad) restano fermi a 11; i partiti della destra, quelli che si potrebbero definire i “repubblicani” israeliani (Likud-Beytenu e Habayit Hayehudi), passano da 49 a 43 (meno 6); e i partiti del centro e della sinistra, i “democratici” israeliani (laburisti, Yesh Atid di Lapid, Hatnuah di Livni, Meretz e Kadima), passano da 44 a 48 (più 4). Dunque, un leggero spostamento del baricentro verso sinistra. La sfiducia nei confronti di Netanyahu è accentuata dal fatto che la sua formazione (insieme a Lieberman) perde 11 seggi, ma 5 di questi vengono risucchiati dal vicino e rivale Naftali Bennett. Degno di nota il sorpasso dei “democratici” nel confronto con i “repubblicani”, che ricalca il modello dell’alternanza in atto senza eccezioni sin dagli anni ’80, mentre haredim e arabi vanno avanti in forza del loro lento incremento demografico. Il risultato fondamentale è che la somma “repubblicani”+haredim, ossia il governo uscente, passa da 65 a 61 seggi, mentre l’opposizione “democratici”+arabi passa da 55 a 59. A prima vista, dunque, la coalizione di Netanyahu conserva un minimo vantaggio. Ma non è certo la compagine che ha dovuto anticipare le elezioni perché incapace di approvare la legge di bilancio (che va comunque approvata entro giugno) quella che potrà attuare gli inevitabili tagli alla spesa dello stato. Da questa situazione di impasse si esce in primo luogo cambiando radicalmente la retorica del discorso pubblico, e Netanyahu sembra averlo percepito nelle sue prime dichiarazioni. Contrariamente all’opinione di molti osservatori nel mondo, la maggioranza dell’elettorato non pensa al futuro di Israele in termini di “shoah” nucleare o della prossima collina in Giudea e Samaria (Cisgiordania) su cui piazzare nottetempo una roulotte, bensì nei termini di una società moderna, competitiva, culturalmente tollerante, in cui l’alloggio deve essere accessibile a tutti, i servizi devono funzionare, e la distribuzione delle risorse deve essere più egualitaria. È questa la grande sfida per Netanyahu, da cui uscirà o un grande uomo politico o una breve nota a piè pagina nei futuri libri di storia. […]».
(Da: Moked, 24.1.13)