Il riconoscimento del Golan ripristina il principio che l’aggressione non deve essere premiata

Senza distinzione fra guerre offensive e guerre difensive, il diritto internazionale finisce col tutelare l’aggressore a scapito dell’aggredito

Di Evelyn Gordon

Evelyn Gordon, autrice di questo articolo

Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan, gli esperti di politica estera si sono lamentati del fatto che stava demolendo un principio fondamentale dell’ordine mondiale: che un territorio non può essere acquisito con la forza. Speriamo che abbiano ragione perché quel principio, in questo modo formulato, lungi dallo scoraggiare le aggressioni, in realtà le premia.

Il problema è che quel principio, come viene attualmente interpretato, non fa alcuna distinzione tra guerre offensive e guerre difensive. Sicché per un aggressore, iniziare una guerra diventa quasi privo di costi (assumendo che non gli importi nulla di mandare al massacro i suoi stessi cittadini, come per lo più i regimi arabi hanno ampliante dimostrato). Infatti, se vince ottiene gli obiettivi che si era prefissato, quali che fossero; se perde, la comunità internazionale farà pressione sulla sua vittima perché restituisca qualunque territorio abbia conquistato nel corso degli scontri: garantendo in questo modo all’aggressore che non dovrà pare nessun prezzo in termini territoriali.

Questa interpretazione distorta è diametralmente l’opposto dello scopo originale del principio, che era quello di scoraggiare l’aggressione. Ma è un’interpretazione piuttosto recente. Dopo la seconda guerra mondiale, gli alleati non si fecero scrupolo di costringere la Germania, il paese aggressore, a cedere territori ai paesi aggrediti. E nel 1967 i paesi occidentali riconoscevano ancora la fondamentale distinzione tra guerra d’aggressione e guerra difensiva.

Una delle postazioni sul Golan (sovrastante il kibbutz Tel Katzir) dalle quali i siriani iniziarono a bombardare le comunità israeliane

Lo dimostra la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, che oggi viene interpretata come se imponesse a Israele di cedere tutto il territorio catturato nella guerra dei sei giorni. In realtà, venne esplicitamente formulata in modo da lasciare che Israele mantenesse parte di quel territorio, tant’è che prevedeva un ritiro solo da una parte dei “territori occupati nel recente conflitto”, e non dai territori o da tutti i territori. Come spiegò in seguito l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite, Arthur Goldberg, quelle parole non erano state omesse per caso: “la risoluzione parla di ritiro, senza definire l’entità del ritiro”. Lord Caradon, l’ambasciatore britannico dell’Onu che scrisse il testo della risoluzione, fu ancora più esplicito: “Sarebbe stato sbagliato – affermò – pretendere che Israele tornasse sulle posizioni del 4 giugno 1967″.

Ciò che è degno di nota, tuttavia, è che la clausola che consentiva a Israele di conservare una parte del territorio conquistato era preceduta nel preambolo da una frase che sottolineava “l’inammissibilità dell’acquisizione di territorio con la guerra”. In altre parole, all’epoca nessuno vedeva alcuna contraddizione fra sottolineare l’inammissibilità di acquisire territorio attraverso la guerra e autorizzare la vittima a mantenere parte del territorio strappato all’aggressore: perché era ovvio che il divieto di conquistare territori attraverso la guerra si applicava all’aggressore nelle guerre offensive, non all’aggredito nelle guerre di difesa. E la guerra dei sei giorni – durante la quale Israele acquisì le alture del Golan dalla Siria, il Sinai e Gaza dall’Egitto, e la Cisgiordania e Gerusalemme est dalla Giordania che le aveva occupate con la forza in una precedente guerra d’aggressione – fu una classica guerra di difesa. Cominciò quando l’Egitto chiuse lo stretto di Tiran alle navi israeliane (un riconosciuto atto di guerra), cacciò i caschi blu dell’Onu dal Sinai e ammassò truppe al confine minacciando pubblicamente di voler annientare Israele.

Bambini del Kibbutz Gadot in un rifugio, durante il bombardamento siriano dal Golan

Non basta. Una volta scoppiati i combattimenti con l’Egitto, Israele non aveva alcun interesse ad aprire ulteriori fronti con la Siria o la Giordania (alla quale notoriamente chiese in ogni modo di restare fuori dalla guerra). Invece entrambi quei paesi lanciarono i loro attacchi, nella fallace convinzione che la vittoria fosse ormai sicura. Nel caso della Siria, l’attacco iniziò con un bombardamento dal Golan sulle comunità civili israeliane. In altre parole, la Siria avrebbe potuto benissimo tenersi fuori dalla guerra (la Giordania lo fece sei anni dopo, tenendosi fuori dalla guerra dello Yom Kiuppu). Invece scelse di partecipare all’aggressione contro Israele, e nei combattimenti che seguirono perse il Golan.

Damasco passò poi i successivi 52 anni a respingere le ripetute offerte di scambiare il Golan per la pace, lanciando anzi un’altra guerra d’aggressione (nel 1973) e continuando a fornire ingente sostegno per decenni agli attacchi contro Israele dal vicino Libano (prima ad opera dall’Olp, poi di Hezbollah). Non aveva alternative? Tutt’altro. In quegli stessi anni l’Egitto sceglieva di fare la pace con Israele (nel 1979) recuperando in tal modo tutto il Sinai fino all’ultimo centimetro; e nel 1994 anche la Giordania firmò un formale trattato di pace con Israele, dopo che aveva mantenuto la pace di fatto per tutti i precedenti 27 anni.

Eppure, nonostante questo eclatante passato siriano di aggressioni e di rifiuto della pace lungo più di mezzo secolo, la comunità internazionale non ha mai smesso di insistere sul fatto che Israele debba restituire il Golan alla Siria. E Damasco ha continuato a pensare di non dover pagare nessun prezzo territoriale per il suo comportamento aggressivo e guerrafondaio. Finché è arrivato Trump.

Probabilmente le considerazioni teoriche sul diritto internazionale non hanno giocato un ruolo importante nella decisione di Trump. Tuttavia, insistendo sul fatto che l’aggressione e il rifiuto della pace non devono cavarsela senza pagare pegno, egli si dimostra più aderente all’obiettivo originale della norma volta a scoraggiare l’aggressione, rispetto a sedicenti paladini del diritto internazionale secondo i quali i paesi aggressori non devono mai subire conseguenze territoriali. Ecco perché si sbagliano quelli che affermano che Trump avrebbe in questo modo legittimato atti di aggressione come la presa della Crimea da parte della Russia. Il punto sta proprio nella distinzione tra guerre d’aggressione e guerra difensive: il Golan e la Crimea sono casi completamente diversi perché il Golan è stato acquisito in una guerra di difesa, mentre la Crimea è stata acquisita con un atto d’aggressione.

Pattuglie israeliane in servizio lungo il confine attuale fra Israele e Siria, sul Golan

Anche l’idea che la decisione sul Golan mini le prospettive di pace fra israeliani e palestinesi è sbagliata. Come ha sottolineato Martin Kramer, dello Shalem College, è vero il contrario. Finora i palestinesi potevano pensare che fosse per loro vantaggioso continuare a rifiutare ogni proposta di compromesso: ogni volta che respingevano un’offerta di pace israeliana, la comunità internazionale li ricompensava chiedendo a Israele di accettare maggiori concessioni. Ora Trump ha dimostrato che il continuo rifiuto comporta un prezzo.

In questo modo, un presidente che si fa beffe volentieri del diritto internazionale potrebbe paradossalmente salvarlo. Il diritto internazionale non è mai stato concepito come un obbligo al suicidio, ma nella sua interpretazione corrente lo diventa sempre più: i confini non possono essere difesi, i terroristi che agiscono tra le popolazioni civili godono di immunità dalla reazione militare, i paesi aggressori possono lanciare guerre impunemente. Dal momento che tutto questo va a danno dei paesi che rispettano il diritto, se si andrà avanti in questo modo saranno sempre più numerosi i paesi che semplicemente abbandoneranno il diritto internazionale a favore del puro istinto di sopravvivenza. Riconoscendo la sovranità israeliana sul Golan, Trump ripristina la distinzione tra guerre d’aggressione e guerre di difesa, e quindi riconduce il diritto internazionale alla ragionevolezza. Che piaccia o no, chiunque ha veramente a cuore il diritto internazionale dovrebbe essergli grato.

(Da: jns.org, 27.3.19)