Le deluse speranze di libertà sotto Autorità Palestinese

Come arabo musulmano mi sento più libero scrivendo sul Jerusalem Post che su un giornale palestinese.

Da un articolo di Khaled Abu Toameh

image_1065Quando Yasser Arafat e l’Olp arrivarono a Gaza nel 1994 (grazie agli accordi di israelo-palestinesi), c’era grande speranza che i palestinesi potessero godere della libertà di stampa. Invece una delle prime cose che l’Olp fece fu di ordinare immediate azioni repressive contro i mass-media palestinesi. Vennero presi di mira molti giornalisti locali, compresi quelli che lavoravano per testate internazionali e quelli che avevano agenzie di stampa indipendenti. Alcuni vennero arrestati e picchiati, la loro attrezzatura venne confiscata, i loro uffici dati alle fiamme. Cosa ancora più triste è che la stampa esterna non ritenne di doverne dare notizia.
Perché vi fu quella repressione? Perché coloro che erano arrivati con Arafat da Tunisi avevano una mentalità diversa. Non avevano vissuto qui. Molti di loro non avevano mai nemmeno parlato con un ebreo israeliano in tutta la loro vita. Così arrivarono con quella che si porrebbe definire una “mentalità da regime arabo”, la stessa dei dittatori arabi. Volevano essere sicuri che i mass-media palestinesi fossero al 100% sotto il loro controllo. E si garantirono quel controllo nominando direttori, chiudendo quotidiani, finanziando quelli concorrenti. L’Autorità Palestinese, ad esempio, ordinò la soppressione del quotidiano filo-giordano An-Nahar e lo fece chiudere. Un altro quotidiano edito dalla famiglia Khatib, uscito su licenza israeliana dal 1967 al 1994, ebbe gli uffici incendiati e l’editore dovette fuggire a Londra.
Tre anni fa ho iniziato a scrivere per il Jerusalem Post. L’ironia è che, come arabo musulmano, mi sento più libero scrivendo su questo giornale ebraico che non per un giornale arabo. Non avrei nulla in contrario a scrivere su un giornale arabo se solo mi garantisse lo stesso grado di libertà, senza censure. I miei direttori al Jerusalem Post non interferiscono mai in quello che scrivo.
Oggi sono tre i principali quotidiani palestinesi: Al-Quds, di proprietà privata, e poi Al-Ayyam e Al-Hayat al-Jadeeda, finanziati dall’Autorità Palestinese. I palestinesi hanno anche un’emittente tv ufficiale che per anni non è stata diversa dal resto dei media che, sotto dittature arabe, si fanno portavoce sempre e soltanto della linea ufficiale. I palestinesi sono stufi di sintonizzarsi sulla tv palestinese e vedere cosa ha fatto il presidente quel giorno. Aprono un giornale palestinese e il principale articolo in prima pagina è su come “sua eccellenza il presidente, possa Iddio proteggerlo e prolungare la sua vita, oggi ha ricevuto un telegramma di sostegno dal vice presidente del sindacato studenti del Sudan meridionale”. Con tutta evidenza questo non è giornalismo degno di questo nome.
Nel 1995, sotto Arafat, un fotoreporter della AFP scattò una scena di vita quotidiana in cui si vedevano dei bambini che giocavano con un asino su una spiaggia. Quando la foto venne pubblicata, il fotografo venne arrestato il giorno stesso, e picchiato, con funzionari dell’Autorità Palestinese che gli chiedevano: “Stai cercando di rappresentarci come somari?”. In un’altra occasione, un direttore venne arrestato per non aver pubblicato un articolo su Arafat in prima pagina.
Negli ultimi anni si è registrato qualche cambiamento positivo verso una stampa palestinese un po’ più libera, perché vi sono qui molti giornalisti che sono buoni professionisti. Fortunatamente non tutti i giornalisti palestinesi si considerano fantaccini al servizio della rivoluzione o della dirigenza. Di fatto, però, molti dei giornalisti che conosco non hanno alcun ruolo nei mass-media arabi e operano invece per la stampa estera.
Purtroppo molti dei miei colleghi stranieri hanno la tendenza ad ignorare la voce dei palestinesi della strada, accontentandosi di intervistare questo o quel funzionario. Per capire cosa pensano davvero i palestinesi, bisogna sedere nei caffè e parlare con la gente comune. Ci sono stati giorni, per esempio, in cui andavo a Nablus e sentivo palestinesi che mi dicevano: “Sai, speriamo davvero che gli ebrei ritornino e rioccupino Nablus. Non perché amiamo Israele, ma perché non ne possiamo più dell’Autorità Palestinese e della corruzione palestinese”.
Per molti anni i mass-media stranieri non hanno prestato abbastanza attenzione alle storie di corruzione nelle aree palestinesi, agli abusi dei diritti umani e a quello che stava realmente accadendo sotto l’Autorità Palestinese. Ignoravano la crescente frustrazione della strada palestinese dovuta alla pessima gestione e agli abusi da parte dell’Olp e del suo monopolio sul potere. Di conseguenza i mass-media hanno bucato la notizia principale: che l’intifada scoppiata nel settembre 2000 non è scoppiata perché vi fosse una vera minaccia alla moschea di al-Aqsa. Essa è nata soprattutto come conseguenza della frustrazione in primo luogo verso l’Autorità Palestinese, ed è in quella direzione che stavano maturando le cose. Le settimane che precedettero l’intifada videro, per la prima volta, l’inizio di una ribellione. C’erano palestinesi che iniziavano ad attaccare le postazioni delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese a Nablus, Ramallah, Tulkarem e Jenin; palestinesi che iniziavano a parlare in tv della corruzione dell’Autorità Palestinese. Arafat sentì cosa bolliva in pentola e intravide un’occasione per deviare altrove tutta quella rabbia e quella frustrazione.
Viceversa, quando il presidente Bush annunciò il suo boicottaggio di Arafat nel 2001, si videro molti più palestinesi parlare apertamente. Improvvisamente i discorsi sulla corruzione non erano più un tabù, e si diffuse la richiesta di riforme, di democrazia e di libertà di stampa.
È aumentata la libertà di stampa palestinese sotto Mahmoud Abbas (Abu Mazen)? Sfortunatamente no. Sui tre maggiori quotidiani palestinesi dove si vedeva sempre la foto di Arafat in prima pagina, oggi si vede quella di Abu Mazen. Ma non si percepisce un vero cambiamento nei contenuti. Molti giornalisti palestinesi non sono ancora liberi di scrivere ciò che vogliono.
Sebbene molti palestinesi sperino in tempi migliori, personalmente vedo segnali molti preoccupanti. Sotto Abu Mazen è stato emesso un ordine scritto dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi che vieta ai giornalisti palestinesi di riferire su scontri interni. L’Autorità Palestinese ha anche emesso una direttiva scritta che proibisce ai cameraman di riprendere uomini col volto coperto che sfilano armati per le strade.
Oggi Gaza è controllata di fatto dalle milizie armate. L’Autorità Palestinese paga gli stipendi, ma i miliziani controllano le strade. Non si può sapere chi si nasconde dietro quelle maschere a Gaza. Una mattina, a poca distanza dagli uffici di Abu Mazen, 150 miliziani hanno trascinato fuori casa un generale palestinese, ancora in pigiama, e lo hanno fucilato in mezzo alla strada. E non s’è trovato neanche un testimone. Abu Mazen non ha fatto nulla, né credo che possa fare nulla, per fermare questo fenomeno. Praticamente un palestinese su due, a Gaza, possiede un’arma e questo crea una situazione piuttosto terrificante.
La situazione di crescente illegalità impedisce anche ai potenziali investitori di portare i loro soldi a Gaza. Gli uomini d’affari palestinesi all’estero non metteranno i loro denari in una zona dove non c’è alcun governo della legge. A mio parere, questo dovrebbe essere il problema numero uno dell’agenda palestinese in questi giorni. Abu Mazen vinse le elezioni presidenziali con una piattaforma che diceva: “Combatterò la corruzione, l’anarchia e l’illegalità”. Un anno dopo la situazione è non è cambiata.
Abu Mazen non può più ignorare la giovane guardia, che ora lo sfida apertamente. Ma qual è la differenza fra la giovane guardia e la vecchia guardia? Qual è la differenza fra Marwan Barghouti e Abu Mazen? Abu Mazen crede nel binario politico, crede che il solo modo per ottenere qualcosa sia attraverso i negoziati. La giovane guardia crede che debba esserci un doppio binario: negoziati e “resistenza”, che gli israeliani chiamano terrorismo. La giovane guardia non è disposta a rinunciare all’opzione militare. Così una vittoria della giovane guardia non significa necessariamente una vittoria della moderazione. Chi ha vinto le primarie di Fatah a Nablus e a Jenin? I comandanti delle Brigate Martiri di al-Aqsa, cioè quelli che girano armati.
La giovane guardia è lanciata verso il potere. Parecchi membri della vecchia guardia stanno lasciando il paese per altri stati arabi, perché temono la giovane guardia. Abu Mazen proietta segnali di debolezza. La sua politica si basa sul tentativo di accondiscendere tutti: Hamas, Jihad Islamica, Fatah, la vecchia guardia, la giovane guardia, Israele, l’America e gli stati arabi. Ma questo è impossibile, e non può funzionare.
Fatah e le forze di sicurezza palestinesi sono i principali responsabili della situazione di anarchia e illegalità. Le forze di sicurezza palestinesi non sono mai state delle vere forze di sicurezza: funzionavano, e alcune ancora funzionano, come milizie private. Secondo dati diffusi dal ministero degli interni palestinese, Fatah e forze di sicurezza palestinesi erano coinvolte nella maggior parte dei fatti di violenza nella striscia di Gaza nei primi nove mesi del 2005.
Credo che i palestinesi vogliano la democrazia. I palestinesi sono fra i più istruiti nel mondo arabo, e sono vissuti a contatto con Israele e altri sistemi democratici occidentali. A differenza di molti paesi arabi, oggi nella società palestinese è aperto un dibattito. Credo che la democrazia possa arrivare, ma non nel futuro prossimo. Finché vi saranno bande armate per le strade, non vi sarà una vera forza di sicurezza palestinese e non vi sarà alcuno stato di diritto, non vi potrà essere nemmeno vera democrazia.

(Da: Jerusalem Post, 4.01.06)