Libano 2006: le prediche inutili

La comunità internazionale avrebbe potuto fare uno sforzo prima della guerra contro Hezbollah, per prevenirla, anziché dopo. Ma, ancora un a volta, Israele è stato lasciato solo.

M. Paganoni per NES n. 9, anno 18 - settembre 2006

image_1377La vignetta di Yaakov Kirschen è fulminante e politicamente scorretta. I soliti due israeliani al tavolino di un bar che commentano le notizie. Dice il primo: “Guerra al confine con il Libano”. E l’altro: “Eh, già”. Il primo: “Guerra anche al confine con Gaza”. E l’altro: “Eh, già”. Di nuovo il primo: “E la Cisgiordania?”. E l’altro: “Ancora tranquilla. In effetti, lì non ci siamo ancora ritirati sul confine del ‘67”.
Un paradosso, ma fino a un certo punto. Lo ha detto esplicitamente il vice primo ministro israeliano Shinon Peres: “Il piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania è scomparso dall’agenda a causa delle violenze scatenate contro Israele da Libano e striscia di Gaza. Il pubblico israeliano non si fida più dopo che i terroristi hanno approfittato dei ritiri per trasformare striscia di Gaza e Libano meridionale in roccaforti da cui continuare a colpire Israele” (Ha’aretz, 10.09.06).
L’idea che Israele si possa ritirare entro confini assai prossimi a quelli precedenti la guerra dei sei giorni anche in mancanza, dall’altra parte, di un interlocutore onesto e affidabile con cui firmare un trattato e coordinare l’impresa, deve poter contare su un elemento: sulla fiducia che quel confine, ancorché non ufficialmente riconosciuto (il dubbio da tempo è che da parte arabo-palestinese nessun confine verrà mai definitivamente e ufficialmente riconosciuto), venga nondimeno percepito dalla comunità internazionale come un confine assai vicino a quello “giusto”, un confine che permetta concretamente ai palestinesi di costruire a fianco di Israele il loro stato (e che, anzi, chiami finalmente i palestinesi alla responsabilità di edificare il loro stato), un confine che Israele abbia il diritto di difendere con la massima determinazione ogniqualvolta venisse aggredito anche dopo il ritiro, potendo contare sul sostegno internazionale.
I fatti dell’estate 2006 si sono incaricati di dimostrare con drammatica evidenza che le cose non stanno così. Benché incessantemente minacciato e attaccato sui confini internazionali sia a sud che a nord da formazioni terroristiche sponsorizzate da temibili potenze regionali quali Siria e Iran, la scelta israeliana di reagire militarmente è stata male interpretata, poco tollerata, pochissimo difesa, per nulla condivisa.
“Tutti gli israeliani avevano buone ragioni per sostenere la recente guerra in Libano, così come le operazioni nella striscia di Gaza – ha scritto un brillante scrittore e polemista di sinistra israeliano, Gadi Taub, professore di scienza delle comunicazioni all’Università di Gerusalemme, in un articolo assai lucido, che merita d’essere estesamente citato – E tutti hanno buone ragioni per rammaricarsi che non sia stata una netta vittoria. E questa è la cosa ovvia: è evidentemente interesse di tutti coloro che desiderano un Medio Oriente di pace impedire che Iran, Siria e fondamentalisti islamisti in generale riescano a imporre la loro egemonia sulla regione. Ma la parte maggioritaria degli israeliani, che va dal centro alla sinistra, aveva un motivo in più per sostenere in modo particolare questa guerra: giacché era una guerra combattuta su ciò che più sta a cuore alla sinistra e al centro, e cioè la necessità che Israele ponga fine all’occupazione. La maggior parte degli israeliani – continua Gadi Taub – è oggi convinta, e giustamente, che senza spartizione del territorio l’esistenza futura d’Israele è a rischio. Hezbollah e Hamas hanno attaccato la capacità di Israele di districarsi dall’occupazione. E, almeno per questa fase, ci sono riusciti. Molti si sono scandalizzati quando il primo ministro israeliano Ehud Olmert, nel bel mezzo dei combattimenti, ha dichiarato che questa guerra doveva aprire la strada al suo piano di convergenza. Forse non era opportuno dirlo in quel momento, ma il concetto era vero. Se Israele avesse ottenuto una netta vittoria, se fosse riuscito a eliminare la minaccia dei missili, avrebbe aperto la strada all’attuazione del piano di ritiro unilaterale chiamato convergenza. Ricapitoliamo la sequenza dei fatti: Israele firmò gli accordi di Oslo nel settembre 1993 perché la maggior parte degli israeliani era giunta alla conclusione che l’occupazione metteva in pericolo il futuro del paese. Arafat fece naufragare la spartizione del territorio. Gli israeliani ne dedussero che non c’era modo di porre fine all’occupazione attraverso un accordo e si mossero per porvi fine lo stesso, ma senza accordo. È così che nacque il concetto di ritiro unilaterale. Ora gli estremisti islamisti hanno trovato il modo di impedire anche questa strada verso la spartizione. Su entrambi i fronti dove Israele si è ritirato unilateralmente (Libano sud e striscia di Gaza), hanno iniziato a tormentarlo coi lanci di missili e razzi, costringendolo a invadere di nuovo proprio le aree da cui si era ritirato”. Secondo Gadi Taub, gli estremisti palestinesi hanno capito che “l’occupazione mette a rischio l’esistenza stessa di Israele: perché lo isola a livello internazionale, lo lacera all’interno, lo espone al terrorismo, unisce gli arabi contro di esso e, infine, perché porterà alla scomparsa dello stato ebraico in una maggioranza araba fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Sulla base di queste valutazioni, agiscono coerentemente per impedire la spartizione. La spartizione li priverebbe delle più efficaci armi a loro disposizione contro Israele. Anche Arafat lo aveva capito, e per questo nel 2000 fece saltare l’accordo offertogli dall’allora primo ministro israeliano Ehud Barak a Camp David e a Taba. Hamas e Hezbollah lo capirono ancora prima di Arafat, e si attivarono per bloccare il processo di pace e impedire la spartizione territoriale fin dai primi anni ’90. A quanto pare, sia Hamas che Hezbollah sono attori politici assai realisti quando si tratta di definire la tattica. I loro obiettivi millenaristici saranno anche illusori, ma i mezzi che usano contro Israele sono perfettamente razionali. Entrambi sapevano che attacchi missilistici dalle aree che Israele aveva sgomberato avrebbero bloccato ulteriori futuri ritiri. Entrambi capivano bene ciò che Olmert aveva spiegato in modo così eloquente agli israeliani prima delle elezioni: che la sopravvivenza di Israele dipende da confini stabili internazionalmente riconosciuti in un territorio dove gli ebrei siano una chiara maggioranza. Il che significa porre fine all’occupazione. Sulla base di questa logica – conclude Gadi Taub – Hamas e Hezbollah hanno deliberatamente puntato a ostacolare il ritiro unilaterale, per impedire che finisse l’occupazione e per bloccare la strada di Israele verso confini stabili e internazionalmente riconosciuti. Se Israele avesse vinto questa guerra debellando Hezbollah e i suoi sponsor, ora la strada sarebbe aperta verso la fine dell’occupazione. Ma non è andata così” (Ynetnews, 21.08.06).
Il ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema afferma di voler vedere “la minaccia fondamentalista allontanata dai confini di Israele” perché questo “mostrerebbe agli israeliani che la comunità internazionale e l’Europa sanno essere efficaci, e dimostrerebbe a Israele che la sua sicurezza può essere garantita meglio con la politica che con la guerra” (intervista ad Ha’aretz, 25.08.06). Prospettiva auspicabilissima, ma tardiva e un po’ infingarda. Come ha sottolineato Alexander Yakobson “è del tutto chiaro che senza la guerra d’Israele contro Hezbollah, non avrebbero mai visto la luce né la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, né la forza multinazionale che oggi potrebbe finalmente stabilizzare il confine israelo-libanese. La ‘minaccia fondamentalista’ sarebbe certamente rimasta con tutta la sua forza nel Libano meridionale, e non sarebbe stato fatto alcun tentativo di rimuoverla. In teoria, si sarebbe potuto ben fare uno sforzo internazionale prima della guerra, per prevenirla, anziché dopo la guerra. Perché accadesse, i diplomatici pacifisti europei avrebbero dovuto dire a se stessi qualcosa di questo genere: Israele è uscito dal Libano sei anni fa, gli Hezbollah hanno preso il controllo della zona al confine e da lì continuano a provocare militarmente Israele ponendo anche una minaccia strategica, in violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (la 425 del 1978 e la 1559 del 2004), con le loro batterie di migliaia di missili capaci di colpire Israele in profondità, missili che presto potrebbero essere messi a disposizione del regime iraniano, quello che invoca la cancellazione di Israele dalla mappa geografica. Per ora Israele esercita autocontrollo, ma è chiaro che tale situazione finirà con lo scatenare prima o poi una guerra. Dunque bisogna esercitare pressioni sull’Iran, sulla Siria e sul governo libanese affinché venga riaffermata la sovranità di Beirut nel sud del paese e vengano applicate le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Se fossero stati intrapresi questi passi, l’intera opinione pubblica israeliana avrebbe riconosciuto i vantaggi della diplomazia europea. E volentieri si sarebbe risparmiata una guerra. Ma tutto ciò non fu fatto, e nemmeno tentato. Forse non ha senso lamentarsene: vi sono processi che possono essere innescati solo da una crisi. E siccome questo è uno di quei casi, le prediche dell’Europa a Israele, in questo contesto, appaiono del tutto inconsistenti. Vale la pena ricordare – conclude Yakobson – che la stessa guerra dei sei giorni del 1967, con la conseguente occupazione durata fino ai giorni nostri, avrebbe potuto essere evitata se gli stati europei avessero fatto pressione sull’allora presidente egiziano Nasser dopo che questi aveva imposto a Israele il blocco navale. Il governo israeliano guidato da Levi Eshkol diede alla diplomazia ben più di una chance, prima di risolversi all’azione militare. Purtroppo anche allora i leader europei non ritennero che fosse necessario dimostrare per tempo a Israele che la sua sicurezza può essere garantita meglio con la politica che con la guerra” (Ha’aretz, 31.08.06). E le conseguenze si pagano ancora oggi.