Premio Nobel per dabbenaggine

L’amministrazione Obama continua a fare errori che silurano i suoi stessi obiettivi

di Barry Rubin

image_2670L’amministrazione Obama continua a fare grossi errori, con effetti devastanti sui suoi stessi obiettivi e interessi. Ciò che stupisce è come non vengano capite le implicazioni delle sue azioni. La politica attuale americana ha già demolito le poche possibilità, non solo di far progredire il processo di pace sul fronte israelo-palestinese, ma anche solo di riavviare colloqui fra le parti.
Nel 1993, al momento della firma degli Accordi di Oslo con l’Olp, Israele annunciò che considerava perfettamente coerenti con quell’accordo le attività edilizie all’interno degli insediamenti già esistenti. Per tutti i sedici anni successivi i palestinesi non ne hanno mai fatto una questione importante. Il governo Usa, pur dicendosi contrario, se ne stava piuttosto tranquillo e non ha mai mosso un dito. Poi è entrato in carica il presidente Obama, che ha fatto della questione delle attività edilizie negli insediamenti già esistenti il centro della politica mediorientale; a tratti è sembrata diventare addirittura la chiave di volta di tutta la sua politica estera. Può sembrare un’esagerazione, ma alle volte l’amministrazione sembra quasi convinta che, se soltanto Israele fermasse la costruzione di qualche migliaio di unità abitative, tutti i problemi del Medio Oriente svanirebbero.
L’amministrazione ha già sprecato quasi dieci mesi inseguendo questo obiettivo. Dapprima ha strillato a Israele, come se fosse un suo subordinato, di farlo subito altrimenti… Poi, visto che Israele non lo faceva, ha capito che forse bisognava offrire a Israele qualcosa, in cambio di questa concessione. Così si è rivolta ai paesi arabi chiedendo loro – nel presupposto, errato, che non vedessero l’ora di arrivare a un accordo di pace – di accettare qualche compromesso, naturalmente senza ottenere nulla.
Di fatto l’amministrazione Obama ha demolito la sua stessa politica giacché, per tutta risposta, l’Autorità Palestinese si è arroccata nel rifiuto di negoziare finché non vi sarà un congelamento totale di tutte quelle attività edilizie (cosa che fino all’anno scorso non aveva mai chiesto). D’altra parte, come potrebbe l’Autorità Palestinese essere meno intransigente del presidente degli Stati Uniti?
Si profilò tuttavia una sorta di via d’uscita. Israele accettò di fermare tutte le attività edilizie una volta completate le unità abitative attualmente già in costruzione, esclusa Gerusalemme. Gli Usa accettarono il patto, con il segretario di stato Hillary Clinton che si mostrava entusiasta per quella la grossa concessione (senza contropartita) che Israele stava facendo. Washington sapeva bene quali rischi politici si stesse assumendo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rispetto alla sua coalizione di governo. E come è andata? È andata che l’Autorità Palestinese non poteva sopportare che Israele venisse minimamente elogiato, e comunque non aveva alcuna intenzione di arrivare davvero al negoziato. Così ha inscenato un accesso d’ira: disordini a Gerusalemme, minacce di dimissioni del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), rifiuto di sedere al tavolo negoziale con Israele, rumoreggiar di voci su una dichiarazione di indipendenza unilaterale.
Tutto lo strepito circa una dichiarazione di indipendenza unilaterale è stato quasi universalmente descritto dai mass-media come frutto della frustrazione dei palestinesi. Nient’affatto. Esso scaturisce invece dalla loro strategia di base: perché accettare dei compromessi di pace con Israele quando di può pretendere tutto e al contempo garantirsi che resti aperta la porta verso una futura battaglia per la completa cancellazione di Israele dalla carta geografica?
E cosa ha fatto l’amministrazione Usa? Ha fatto marcia indietro su tutto salvo la dichiarazione di indipendenza. Dopo aver fatto un patto con Israele, dopo aver ottenuto che Netanyahu si prendesse un rischio enorme, gli ha fatto mancare il terreno sotto i piedi dicendo: beh, forse dopo tutto non era poi una concessione così grande.
Ne prendano nota, tutti coloro che invocano sempre maggiori concessioni da parte di Israele come chiave per la soluzione di tutto: ancora una volta si è visto che una concessione non porta a una concessione dall’altra parte né a un progresso sulla strada verso la pace; produce soltanto la richiesta di ulteriori concessioni senza dare alcun concreto riconoscimento all’ultima concessione fatta.
L’ultimo atto del dramma è stato che, dopo l’annuncio di un progetto per la costruzione di appartamenti nel quartiere Gilo di Gerusalemme – cosa perfettamente conforme al patto Israele-Usa – Washington se ne è amaramente rammaricata, mostrando che non solo non rispettava i patti che altri avevano fatto coi suoi predecessori, ma che non rispettava nemmeno i patti che aveva fatto essa stessa. Obama ha reclamato che le attività edilizie a Gilo complicano gli sforzi fatti dall’amministrazione per rilanciare i colloqui di pace, rendono più difficile il raggiungimento della pace ed esasperano i palestinesi. Curiosamente, Obama non ha mai contestato nulla del genere all’Autorità Palestinese a proposito della sua quotidiana istigazione al terrorismo (scuole, tv ecc.); della sua mancata condanna dei terroristi; delle sue continue negoziazioni con Hamas nonostante il fanatismo, le intenzioni genocide e le idee antisemite di Hamas; del suo rifiuto di tornare al tavolo negoziale con Israele nonostante l’esplicita richiesta da parte di Obama; dell’infranta promessa di non usare il rapporto Goldstone per castigare Israele, e altri comportamenti di questo genere, ognuno dei quali, anche preso da solo, è obiettivamente molto più deleterio della decisione di costruire delle case a Gilo.
Non basta. Dopo aver silurato i negoziati dando massimo rilievo alla questione delle attività edilizie negli insediamenti già esistenti, Washington ora va oltre: la richiesta minima diventa nessuna costruzione persino all’interno di Gerusalemme. Naturalmente paesi arabi e Autorità Palestinese la faranno immediatamente loro, rifiutando qualunque colloquio finché non avranno anche questo. E dal momento che Israele non fermerà le attività edilizie all’interno di Gerusalemme, e la parte araba – a differenza dell’amministrazione Usa – non recederà, Obama si ritroverà ad aver infilato in un vicolo cieco il processo di pace per l’intero suo mandato. Anzi, forse è riuscito a impedire anche la semplice ripresa di un negoziato globale.
E qui c’è altro problema. Dando continuamente la colpa a Israele per ogni fallimento, l’amministrazione Usa non solo segnala di fatto all’Autorità Palestinese e ai paesi arabi che possono fare quello che vogliono senza pagare pegno; senza volerlo li incoraggia anche a sabotare ogni progresso. Perché? Perché più le cose rallentano e vanno male, più potranno darne la colpa a Israele, contando sul fatto che lo faranno anche Stati Uniti ed Europa.
L’amministrazione Usa sta spianando la strada al proprio stesso fallimento. Se Washington si arrabbia sempre di più con Israele ogni volta che stati arabi e palestinesi silurano i negoziati, perché loro non dovrebbero continuare a farlo?
Un ultimo punto. La stessa perdita di credibilità americana che danneggia Israele colpisce anche gli stati arabi relativamente moderati nei rapporti che Washington intrattiene con loro.
Senza dubbio ben presto sentiremo che, se Israele fermasse la costruzione di appartamenti a Gilo, vi sarà la pace israelo-araba, non vi sarà più terrorismo, l’Iran abbandonerà la sua corsa alle armi nucleari e Obama riceverà il Premio Nobel per la pace. Ohibò, quest’ultima cosa è già successa. E allora sarà il Premio Nobel per la dabbenaggine.

(Da: Jerusalem Post, 23.11.09)

Nella foto in alto: Barry Rubin, autore di questo articolo