Salam non è shalom, per il regime siriano

Oggi, perseguire l'accordo con un altro dittatore arabo è un atto di pura cecità.

Di Yoaz Hendel

image_3076È ormai da tre decenni che Israele e Siria intrattengono discussioni indirette a distanza su un accordo di pace. Iniziarono durante il governo di Assad padre (che cercava di proclamare il risultato ancor prima che i negoziati prendessero avvio) e sono poi andati avanti con Assad figlio grazie ai buoni uffici di una serie di inutili emissari segreti. La pace non è arrivata, ma in compenso abbiamo visto in campo una quantità di inviati e di illusioni.
La verità è che, a dispetto della memoria selettiva dei vari devoti del processo di pace, non siamo mai stati nemmeno vicini ad ottenere un accordo con la Siria. Si possono trovare svariate spiegazioni di questo fatto per attribuirne la colpa ancora una volta a noi stessi, ma la sola ragione vera è che il termine “pace” (benché esista, e abbia la stessa radice, sia in ebraico che in arabo) viene interpretata dalle due parti in modo totalmente differente.
In Israele sogniamo una pace che induca la Siria a staccarsi dall’Iran, apra la strada a un Libano tranquillo e permetta ai sognatori di farsi un piatto di hummus a Damasco. I siriani, dal canto loro, parlano di un processo di pace che permetta loro di riprendersi le alture del Golan e di migliorare il loro rapporto di forze strategico a fronte di Israele: tutto qui, niente di più e niente di meno.
Ed è qui che sta il problema. Sin da quando venne firmato il trattato di pace con l’Egitto, per mancanza di alternative Israele ha adottato il paradigma secondo cui la pace viene fatta coi capi più che con le popolazioni. Non andiamo a rilassarci davanti a un piatto di hummus al Cairo né ad assistere a eventi culturali ad Amman: quello che abbiamo sono convenienze e relazioni fra i leader.
I trattati di pace con Egitto e Giordania non hanno attenuato la consolidata tradizione araba di incolpare Israele per tutti i guai del mondo. Ma noi, pur di rendere la realtà un po’ più accettabile, abbiamo scusato queste lacune facendo riferimento alla forza dei leader.
È ancora presto per tirare conclusioni, ma c’è almeno una lezione importante che possiamo trarre dalle rivolte in Medio Oriente: i limiti della dittatura. La fuga del presidente tunisino, la caduta di Mubarak, l’assedio di Gheddafi e le voci in preda al panico che giungono dai lussuosi palazzi di altri capi arabi mostrano che le cose cambiano e che i tiranni non durano per sempre. Le intese raggiunte oggi con un capo arabo possono trasformarsi, domani, in un enorme punto interrogativo.
Personalmente sono tra coloro che ritengono che la Siria debba impegnarsi in un profondo esame di coscienza, negli anni a venire, prima che vi possa emergere un’autentica volontà di procedere verso un vero accordo di pace coi suoi vicini ebrei. Al contrario della dottrina corrente, secondo me le alture del Golan non costituiscono affatto la chiave per il miglioramento della situazione fra i due stati, bensì soltanto una pretesto artificiale. Oggi, coi capi arabi che crollano, perseguire un accordo con un altro dittatore mi sembra pura cecità.

(Da: YnetNews, 1.3.11)

Nella foto in alto: Yoaz Hendel, autore di questo articolo