Un allarmante anniversario: l’accordo con l’Iran, 5 anni dopo

Come previsto, l'accordo sul nucleare voluto da Obama e Unione Europea ha solo incoraggiato l’aggressività di Teheran in tutto il Medio Oriente. E adesso son dolori

Di David M. Weinberg

David M. Weinberg, autore di questo articolo

Quasi nessuna testata  occidentale ha ricordato che lo scorso 14 luglio ricorreva il quinto anniversario dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) fortemente voluto dall’allora presidente americano Barack Obama (e dall’Alto rappresentante esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini ndr). Quell’accordo ha incoraggiato la marcia egemonica dell’Iran in tutto il Medio Oriente senza peraltro fermare la sua avanzata verso le armi nucleari. E tutto ciò non fa che avvicinare il temuto scontro diretto tra Israele e Iran.

L’accordo sul nucleare iraniano si basava sull’indulgenza occidentale verso le bugie iraniane. Già nel 2013, quando Obama iniziò a negoziare segretamente con gli iraniani, l’amministrazione Usa sosteneva che le prove della ventennale spinta dell’Iran verso una bomba atomica operativa si basavano su informazioni parziali: non era possibile saperlo con certezza, non vi erano prove definitive. Stando così le cose, chi mai avrebbe voluto farsi etichettare come allarmista o pagare il prezzo di un impegno morale volto a fermare davvero l’Iran? Era più comodo prendere per buone le smentite del presidente iraniano Hassan Rouhani e i sorrisi del suo ministro degli esteri Javad Zarif. Fu così che Obama poté attribuire credibilità e onestà alla dirigenza iraniana. A giustificazione del suo approccio soft con Teheran, Obama citava a una presunta fatwa della Guida Suprema iraniana contro lo sviluppo di armi nucleari e la “promessa di Rouhani che l’Iran non svilupperà mai un’arma nucleare”. Alla stessa stregua, l’allora segretario di stato John Kerry asseriva al Congresso nel 2015 di credere nella “sincerità della Guida Suprema” (Kerry non riusciva a vedere nulla di male nei capi iraniani, lo vedeva solo negli insediamenti israeliani). Di conseguenza, quei leader americani condonarono all’Iran la richiesta che si sbarazzasse completamente delle “eventuali dimensioni militari” del suo precedente programma nucleare, e lasciarono anche cadere la richiesta che l’Iran acconsentisse senza mezze misure a ispezioni nei suoi impianti nucleari militari ovunque e in qualsiasi momento.

Il presidente dell’Iran Hassan Rouhani (a destra) riceve la rappresentante della politica estera dell’Unione Europea Federica Mogherini (foto d’archivio)

Nel suo risoluto discorso davanti al Congresso Usa del marzo 2015, il primo ministro israeliano Bejamin Netanyahu mise in guardia su tre pericoli derivanti dall’accordo allora imminente. Anticipò, purtroppo a ragione, che l’Iran sarebbe diventato ancora più aggressivo e avrebbe sponsorizzato sempre più terrorismo, una volta revocate le sanzioni contro Teheran. In secondo luogo osservò che, stando ai termini dell’accordo (e dunque senza nemmeno violarlo), l’Iran avrebbe potuto continuare a sviluppare centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e missili balistici in grado di trasportate armi nucleari, nell’attesa che in 10-15 anni venissero revocate tutte le sanzioni e scadessero i limiti imposti all’arricchimento di alto livello (quello necessario per uso militare). In terzo luogo, Netanyahu avvertì che i paesi vicini avrebbero cercato di dotarsi delle stesse capacità dell’Iran, innescando potenzialmente una pericolosissima corsa agli armamenti nucleari in tutta la regione.

Cinque anni dopo si vede chiaramente che Netanyahu aveva ragione. Come hanno scritto Yaakov Amidror, Jacob Nagel e Jonathan Schachter (tutti ex alti funzionari della sicurezza israeliana), l’aggressività dell’Iran in tutta la regione non è mai stata così sfrontata. L’Iran ha intensificato i suoi piani volti a seminare ostilità, terrore e spargimenti di sangue a Gaza, in Iraq, in Libano, in Arabia Saudita, in Siria, nello Yemen e sulle vie di navigazione della regione. Yossi Mansharof, del Jerusalem Institute for Strategy and Security, ha documentato la rete mondiale di gruppi terroristici e alleanze dell’Iran, attraverso la quale Teheran conduce guerre per procura anche contro gli Stati Uniti e Israele. Il bilancio militare dell’Iran è cresciuto di circa il 30-40%, due terzi del quale è destinato al potente Corpo delle Guardie Rivoluzionarie e una parte anche a Hezbollah, Hamas e altri gruppi terroristici. In breve, l’accordo sul nucleare di Teheran anziché ottenere maggior moderazione dall’Iran, ha finanziato l’aggressività iraniana.

Luglio 2015, nella vignetta del giornale saudita Al-Watan: l’accordo sul nucleare, rappresentato dalla stretta di mano, fa affluire petrodollari ai terroristi finanziati dall’Iran

Due anni fa, Israele ha fornito la “pistola fumante” che dimostra le chiare dimensioni militari del programma nucleare iraniano. L’audace raid del Mossad in un archivio atomico a Teheran portò alla luce decine di migliaia di documenti ufficiali iraniani che elencano le persone coinvolte nello sforzo militare nucleare iraniano, l’ubicazione di siti segreti per lo sviluppo nucleare, organizzazioni di facciata create dall’Iran per procurarsi componenti nucleari e know-how nell’ambito dell’accordo, soggetti occidentali che hanno collaborato al contrabbando di componenti per lo sforzo militare nucleare, estesi sforzi nella corsa agli armamenti e altro ancora. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha finalmente iniziato a dare seguito (seppure molto blandamente) a questi ritrovati: ha chiamato in causa l’Iran per l’arricchimento che vìola i tetti prescritti nell’accordo e ha biasimato Teheran per aver impedito l’accesso degli ispettori a due importanti siti nucleari.

Ma ovviamente nessuna delle personalità occidentali responsabili dell’accordo-truffa del 2015 ha mai ammesso d’aver sbagliato circa le intenzioni dell’Iran. Non confesseranno mai di essersi lasciati ingannare volentieri da Teheran. Non possono riconoscere il fatto evidente che gli ayatollah non hanno mai tolto di mezzo l’opzione per armi nucleari.Nel frattempo, anche la terza anticipazione di Netanyahu si è concretizzata. I paesi un po’ in tutto il Medio Oriente hanno iniziato a riposizionarsi in vista di un Iran armato di armi nucleari. La Turchia ha apertamente dichiarato il suo desiderio di ottenere armi nucleari. L’Egitto sta cercando di procurarsi tecnologie che hanno a che fare con le armi nucleari, e anche l’Arabia Saudita sta rimuginando la stessa idea.

Slogan in Iran: “Israele deve essere cancellato dalla faccia della Terra”

La domanda adesso è: chi frenerà l’aggressività e l’avanzata verso il nucleare dell’Iran. E come? Bisogna dare atto al presidente degli Stati Uniti Donald Trump d’aver scoperto il bluff globale e d’aver ripristinato severe sanzioni su Teheran, insieme alla minaccia di usare la forza militare. Gli Stati Uniti hanno anche ucciso Qassem Soleimani, il comandante della Forza Quds delle Guardie Rivoluzionarie, quella incaricata delle operazioni all’estero. E tacitamente appoggiano Israele nei suoi attacchi segreti a siti militari iraniani in Siria e – forse – a installazioni nucleari in Iran. Ma l’istinto isolazionista di Trump (e la sua pessima situazione elettorale) rendono improbabile che colpisca direttamente l’Iran con forze americane. La sua incapacità di cooperare positivamente con gli alleati occidentali (o con la Russia e la Cina) fa sì che il regime di sanzioni contro l’Iran rimane parziale. E se anche vincesse la rielezione, secondo alcuni osservatori come il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, Trump potrebbe essere disposto a sottoscrivere un altro accordo soft con l’Iran. In effetti, la sua propensione per accordi grandiosi che confermino la sua grandezza fa temere che possa essere tentato da un accordo con l’Iran molto al di sotto di ciò che sarebbe necessario. C’è un schema riconoscibile nella gestione della politica di Trump verso la Cina, la Corea del Nord, i palestinesi e forse anche l’Iran: prima arriva la pressione economica, poi arriva l’offerta di rapide trattative alla ricerca di un accordo “storico” che rischia di essere più nebuloso che non effettivamente valido.

Sull’altro schieramento, la maggior parte dei democratici sostiene il ritorno all’accordo sul nucleare del 2015 e la revoca di parte delle sanzioni contro l’Iran. Lo ha detto chiaramente il candidato democratico alla presidenza, Joe Biden, pur aggiungendo che cercherebbe di rinegoziare alcuni dettagli dell’accordo (come le sue originarie date di scadenza). Ma è ben poco. In realtà quello che bisognerebbe costringere l’Iran ad accettare sono cinque punti chiave: 1) La fine completa del suo programma militare nucleare, compreso l’arricchimento dell’uranio e la produzione di plutonio senza nessuna data di scadenza. 2) Un regime di ispezioni internazionali veramente efficace, e non quella specie di barzelletta di ispezioni praticamente inesistenti prevista dall’accordo del 2015. 3) La fine del programma iraniano per lo sviluppo di missili balistici. 4) Il ritiro dalle basi avanzate in Siria che l’Iran cerca di stabilire per minacciare Israele. 5) La completa cessazione dei finanziamenti iraniani a favore delle forze militari e terroriste di Hamas e Hezbollah.

Un accordo con l’Iran che fosse meno di questo sarebbe pericoloso e insostenibile. Ma gli iraniani continuano a fare il loro solito gioco, offrendo concessioni fasulle (come la fine delle loro intercettazioni di petroliere) in cambio di sostanziali concessioni americane da ottenere in anticipo (come la fine delle sanzioni all’esportazione di petrolio). “È così che gli iraniani giocano la loro partita – aveva avvertito l’anno scorso l’esperta di Iran Emily Landau, prima della sua prematura scomparsa – È così che distorcono le cose, facendo credere che fanno concessioni quando di concessioni non ne fanno per nulla”.

(Da: Israel HaYom, 26.7.20)