Il mito del diritto al ritorno

La lunga storia delle rivendicazioni dei popoli e delle risoluzioni ONU

Da un articolo di Eyal Benvenisti

Che cosa dice realmente la Dichiarazione di Beirut? Sette anni dopo l’iniziativa di pace saudita, e oltre sei anni dopo che l’iniziativa ricevette il sostegno della lega araba, sta iniziando qui la discussione pubblica sulla questione. Alcuni degli oratori hanno un approccio sospettoso, vedendo un ‘no’ infido nascosto sotto il ‘si’ della Dichiarazione di Beirut.
Questo approccio è sano e appropriato, ma necessita la raccolta e la valutazione dei fatti.
Qui ci sono alcuni fatti presi dal diritto internazionale che hanno a che fare con uno dei problemi chiave del conflitto: la richiesta del ritorno dei profughi palestinesi.
La Dichiarazione di Beirut chiedeva ad Israele di condurre negoziati di pace che comprendessero una “giusta soluzione al problema dei profughi palestinesi da concordare in ottemperanza alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.” E’ chiaro a tutti che un soluzione “concordata” significa che la soluzione deve essere accettata anche da Israele, e che “giusta” implica una flessibilità che non necessariamente aderisce alla lettera del diritto.
Tuttavia, qual’è il significato dell’ esigenza che l’accordo ottemperi alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale ONU? La Risoluzione 194, dicono i sospettosi, riconosce il diritto dei profughi palestinesi a ritornare alle loro case, e quindi Israele non deve essere sedotto dall’iniziativa.
Tuttavia, la verità è che nella risoluzione 194 non c’è riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi. Anzi, fin dagli anni’90 i palestinesi sostengono che la risoluzione riconosce il diritto al ritorno, ma la loro rivendicazione è priva di fondamento. Al contrario, la risoluzione nega il diritto dei profughi a ritornare alle loro case.
Inoltre, la risoluzione ha messo come scopo per l’ONU la soluzione del problema dei profughi risistemandoli nei paesi arabi. La formulazione che è stata accettata era passibile di un’interpretazione conveniente dalla prospettiva di Israele, perché lasciava nelle sue mani il giudizio se, quando e quanti profughi avrebbe accettato nel suo territorio.
La lotta per la formulazione della 194 fu complessa e strenua. La posizione di apertura era cattiva dal punto di vista di Israele, perché la bozza della risoluzione suggerita dal conte Folke Bernadotte riconosceva il diritto dei profughi (solo i profughi arabi) a ritornare alle loro case il più presto possibile.
La formulazione che fu accettata ere totalmente diversa. Quei profughi (implicitamente anche profughi ebrei) che desiderino “ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero poterlo fare quanto prima possibile.” Il linguaggio della risoluzione lasciava aperte tutte le questioni importanti: Chi avrebbe scelto i profughi e deciso il ritorno di quelli di loro che avrebbero potuto vivere in pace con i loro vicini, se il ritorno era fattibile, e in questo caso quando, e così via. La risoluzione stabiliva anche una “Conciliation Commission” che valutava che a causa dei cambiamenti che avevano avuto luogo durante il corso della guerra e immediatamente dopo di essa, qualunque piano per il ritorno dei profughi avrebbe dovuto essere coordinato con Israele e che il numero dei profughi a cui era concesso di ritornare sarebbe stato concordato e definitivo. L’Assemblea Generale ONU accettò questa posizione.
La posizione che nega il diritto al ritorno era anche la posizione del diritto internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Era quella un’epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazioni erano considerati come il modo appropriato di ridurre le frizioni etniche e costruire identità nazionali. Durante gli anni ’90 sembrò che fosse avvenuto un cambiamento nella posizione del diritto internazionale alla luce della pulizia etnica nell’ex Yugoslavia. Il desiderio di impedire massacri ed espulsioni portò al diffuso riconoscimento dell’obbligo di riportare i profughi alle loro case. In questo frattempo, la distinzione tra i profughi bosniaci ed i profughi palestinesi divenne confusa. Questo era il periodo durante il quale i palestinesi adottarono la Risoluzione e , e vi lessero l’apparente riconoscimento del diritto al ritorno.
Da allora, oltre 10 anni sono passati, durante i quali c’è stato un generale raffreddamento della soluzione del ritorno..Il piano del 2003 dell’ex segretario generale ONU Kofi Annan di risolvere il conflitto a Cipro riconosce che i profughi ciprioti non hanno il diritto di ritornare alle loro case. Annan fa una distinzione tra profughi bosniaci e ciprioti a causa delle circostanze della vita che erano cambiate durante i 30 anni passati dallo scoppio del conflitto e delle esigenze legittime di quelli che si erano installati nelle case dei profughi.
E’ difficile esagerare il significato del precedente nella posizione ONU che riconosce il diritto dei governi a negoziare a nome dei profughi. Negli ultimi giorni del 2008 ci sono stati alcuni che avevano dei dubbi anche sulla saggezza dello sforzo per restituire i profughi bosniaci alle loro case,in quanto il loro ritorno ha condotto ad una situazione di crisi che potrebbe degenerare in qualunque momento in una rinnovata violenza.
Alcuni dicono che la dichiarazione di Beirut adotta la lettura palestinese della Risoluzione 194. Questa rivendicazione non è accettabile per parecchie ragioni, tra cui il riconoscimento della necessità dell’approvazione israeliana e la dichiarazione che i palestinesi non saranno risistemati nei paesi arabi in cui circostanze speciali lo impediscano. Questa era una promessa al Libano, che ha capito che la dichiarazione abbandonava la richiesta del ritorno e quindi si è affrettato a difendere il suo fragile equilibrio democratico. Tuttavia, anche se la rivendicazione che la dichiarazione di Beirut adotta l’interpretazione palestinese è vera, alla luce della corrente interpretazione della Risoluzione 194, l’accettazione da parte di Israele dell’iniziativa non costituirebe riconoscimento del diritto al ritorno.

(Da: Ha’aretz, 24.12.08)