La ricetta giusta per esacerbare il conflitto israelo-palestinese

Imporre scadenze, ignorare le preoccupazioni nate dall’esperienza, fingere di non vedere le spietate guerre in corso nel resto della regione

Di Clifford D. May

Clifford D. May, autore di questo articolo

Clifford D. May, autore di questo articolo

Il processo di pace tra israeliani e palestinesi è a un punto morto. Cosa dovrebbero fare i leader americani ed europei? Innanzitutto cercare di non peggiorare le cose: il che è tutt’altro che facile.

Molti infatti in Occidente credono che il conflitto israelo-palestinese sia relativamente semplice da risolvere, certo non come le guerre assai più sanguinose condotte da jihadisti sunniti e sciiti in Siria, Iraq, Yemen, Libia ecc. I palestinesi dicono che vogliono un loro stato. Devono averlo nella striscia di Gaza e in Cisgiordania (territori che Israele ha catturato a Egitto e Giordania, rispettivamente, durante la guerra difensiva combattuta nel giugno 1967). Gli israeliani vogliono avere sicurezza entro confini riconosciuti. Oltretutto la comunità internazionale glielo ha promesso. Se israeliani e palestinesi non riescono a cavarsela da soli – pensano in Occidente – imponiamo noi la soluzione a due stati, e facciamola finita. E’ un approccio allettante. Ma lasciatemi spiegare perché è completamente sbagliato.

Nell’estate di dieci anni fa, l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon decise di mettere alla prova l’ipotesi che gli israeliani possono cedere terre in cambio di pace. Ordinò lo sgombero dalla striscia di Gaza di tutti gli israeliani, militari e civili, facendo portar via a forza quelli che si rifiutavano di fare le valige e andarsene in silenzio. Sperava che Gaza potesse diventare, da allora in poi, un luogo di pace i cui leader si sarebbero concentrati su sviluppo economico, istruzione e assistenza sanitaria. Se ciò fosse accaduto, gli argomenti a favore di un ulteriore ritiro di Israele dalla Cisgiordania sarebbero diventati inoppugnabili. Se invece Gaza si fosse trasformata in una base per lanciare attacchi contro gli israeliani, pensava Sharon, allora Israele avrebbe avuto il diritto di reagire energicamente, con la comprensione e il sostegno della comunità internazionale.

Ricapitoliamo quello che accadde dopo. Nel 2006 Hamas vinse a piene mani le elezioni palestinesi. Nel 2007 Fatah e Hamas, le due principali fazioni palestinesi, entrarono in guerra l’una contro l’altra a Gaza. Fatah, guidata dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ne uscì sanguinosamente sconfitta, e Hamas prese ben presto a sparare razzi e missili – migliaia di razzi e missili – sui villaggi israeliani. Il che portò a due guerre con Israele, nel 2008 e nel 2012. Poi, la scorsa estate, in mezzo all’ennesima raffica di razzi, si è scoperto che Hamas stava costruendo tunnel appositamente progettati per infiltrare terroristi all’interno di Israele a perpetrare stragi e catturare ostaggi. E’ stato a quel punto che le Forze di difesa israeliane, in quei 50 giorni di guerra, sono penetrate nella striscia di Gaza.

"Gli argomenti a favore di un ulteriore ritiro di Israele dalla Cisgiordania sarebbero diventati inoppugnabili"

“Gli argomenti a favore di un ulteriore ritiro di Israele dalla Cisgiordania sarebbero diventati inoppugnabili”

Ma Sharon si sbagliava. Nonostante il fatto che Israele sia stato attaccato e che, come ha detto il generale Martin Dempsey, Capo di stato maggiore della Difesa degli Stati Uniti, abbia fatto “sforzi straordinari per evitare vittime civili”, molti in Occidente, compreso il rapporto in discussione all’Onu questa settimana, danno la colpa a Israele, quanto e più che a Hamas, per le morti e le distruzioni subite dalla popolazione di Gaza la scorsa estate.

Sulla base di questa esperienza, la maggior parte degli israeliani teme fortemente che un ritiro dalla Cisgiordania sarebbe disastroso. Il vuoto di potere verrebbe ben presto riempito da Hamas, o dallo “Stato Islamico” (ISIS), o da qualche gruppo affiliato ad al-Qaeda, o da Hezbollah, la “legione straniera” iraniana con sede in Libano.

Dalle colline della Giudea, in Cisgiordania, tutti i più importanti centri abitati e industriali israeliani potrebbero essere bersagliati con semplici tiri di mortaio che nessun sistema di difesa anti-missilistica sarebbe in grado di intercettare. Israele non potrebbe fare altro che rispondere al fuoco, con le prevedibili conseguenze (e le automatiche condanne).

Tutto ciò ci porta a questo: la scorsa settimana il ministro degli esteri francese Laurent Fabius è stato in visita a Gerusalemme e a Ramallah, la capitale de facto palestinese, e ha parlato della risoluzione che intende sottoporre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La risoluzione chiederebbe la ripresa immediata dei colloqui tra israeliani e palestinesi, dando loro un lasso di tempo di circa 18 mesi per arrivare a un accordo definitivo basato sulle linee del ‘67 e Gerusalemme come capitale condivisa. Se non verrà raggiunto un accordo entro quel termine, i governi occidentali riconosceranno comunque lo stato palestinese.

E’ mai possibile che Laurent Fabius non si renda conto che, così facendo, dà ad Abu Mazen un irresistibile incentivo per non accettare nessun compromesso? E se anche, per qualche miracolo, l’80enne presidente dell’Autorità Palestinese venisse a patti con Israele, quale sarebbe il risultato? E’ stato eletto dieci anni fa per un mandato che doveva durare quattro anni. Hamas non riconosce la sua autorità, come è altamente probabile che non la riconoscerà il suo successore, chiunque sarà e in qualunque modo arriverà al potere. Sapendo tutto questo, ci si può davvero aspettare che gli israeliani facciano concessioni che metterebbero a rischio la loro vita e quella dei loro figli?

In passato i presidenti americani, sia repubblicani che democratici, hanno bloccato risoluzioni di questo genere al Consiglio di Sicurezza. Ma il presidente Barack Obama minaccia di interrompere la tradizione. C’è chi ipotizza che in realtà egli stia incoraggiando i francesi a fare questo passo.

La risposta pronta è: “Bisogna pur fare qualcosa!”. Ma la percezione di un’urgenza non equivale necessariamente a una politica intelligente. E se ci si concentrasse piuttosto su una serie di miglioramenti incrementali? Con i barbari che tagliano le teste appena al di là del confine, bisognerebbe ampliare tacitamente programmi di sicurezza congiunti israelo-palestinesi; anziché promuovere boicottaggi contro Israele, bisognerebbe spingere per la cooperazione economica israelo-palestinese, con gli israeliani che forniscano posti di lavoro migliori e più numerosi ai palestinesi di Cisgiordania.

In mancanza di una tale cooperazione, la stato palestinese farà inevitabilmente la fine dell’eterno minorenne a carico della comunità internazionale o, peggio, dell’ennesimo stato mediorientale sanguinosamente “fallito”.

Persino a Gaza si potrebbero migliorare le cose un poco per volta. In questo momento Hamas sembra fare di tutto per non provocare un altro conflitto. Le sue forze si sono mosse contro i jihadisti simpatizzanti dell’ISIS. Bisognerebbe premiare questo comportamento.

Questo approccio prudente potrebbe risparmiare vite e migliorare la qualità della vita, sia per i palestinesi che per gli israeliani. Certo, nessuno vincerà il premio Nobel e non si vedranno gli ex nemici abbracciarsi e complimentarsi a beneficio delle telecamere sul prato della Casa Bianca. Quello che si potrebbe vedere, invece, sono israeliani e palestinesi che imparano a poco a poco che una convivenza pacifica è possibile e – sia detto a coloro che ancora non l’hanno capito – che è altamente auspicabile.

Se non altro, in questo modo i leader occidentali non avranno peggiorato le cose.

(Da: Israel HaYom, 24.6.15)

Ha scritto Sergio Della Pergola, su Moked: «Singapore in sanscrito vuol dire la città del leone. Nell’isola-città-stato 137 km a nord dell’equatore, su un territorio di 718 km quadrati (il doppio di Gaza) vivono 5 milioni e mezzo di abitanti (il triplo di Gaza). Singapore ha raggiunto il nono posto su oltre 180 paesi come livello di sviluppo umano (Israele è 19esima, l’Italia è 26esima). Da paese poverissimo di pescatori e fumatori di oppio, a primario svincolo logistico e commerciale mondiale. Nel 1819 all’arrivo degli inglesi, vivevano sul luogo 2.000 malesi. Oggi dei 5 milioni e mezzo di abitanti, il 74% sono cinesi, il 13% malesi, il 9% indiani. Dunque, un completo avvicendamento di popolazione. Singapore nel 1965 è diventato indipendente staccandosi dalla Malesia musulmana. Due stati per due popoli?». (Da: Moked, 11.6.15)