Quando anche ad Abu Mazen scappa detta la verità storica

Nessuna cacciata ad opera degli ebrei, nelle memorie del presidente palestinese

Da un articolo di Sarah Honig

Una casa ebraica di Safed dopo il pogrom del 1929

Quelle piccole storie spesso trascurate, che raramente arrivano ai titoli di prima pagina o alle trasmissioni tv, sono spesso le più significative. È da esse che talvolta emergono delle verità deliberatamente soppresse, è lì che le grandi bugie vengono talvolta smascherate, seppure inavvertitamente.
Poca attenzione hanno ricevuto lo scorso luglio le rivelazioni del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), sulla tv Al-Palestinia. Abu Mazen ha parlato della sua giovinezza a Safed, da dove racconta sempre che la sua famiglia fu cacciata a forza dalle truppe israeliane nel 1948. Abu Mazen si compiace del suo presunto status di profugo. È l’armamentario che gli è indispensabile sulla scena araba e internazionale: la commovente postura della povera vittima conferisce un’apparente autorità morale alla sua causa. Questa posa, per di più, diventa un dogma arabo fondamentale: la recriminazione cruciale per giustificare il terrorismo contro Israele, e rifiutarsi di abbandonare il cosiddetto “diritto al ritorno” da parte dei profughi a quelle che vengono descritte come le case sottratte loro dai violenti conquistatori ebrei. L’opinione pubblica prevenuta si presta volentieri a credere alla favola del palestinese combattente per la libertà. Ma una spensierata disattenzione – o la convinzione che nessuno ascolti i discorsi tra arabi – a volte fa cadere la maschera così pazientemente fabbricata. È quello che è accaduto ad Abu-Mazen il 6 luglio scorso.
Il co-fondatore di Fatah, soffermandosi a lungo sulle sue origini a Safed, ha lasciato trapelare per caso la verità. “Fino alla nakba ( “la sciagura”, il greve sinonimo usato in arabo per indicare l’indipendenza di Israele) – ha raccontato – la sua famiglia “viveva da benestante a Safed”. Quando Abu Mazen aveva 13 anni, prosegue il racconto, “partimmo a piedi di notte per il fiume Giordano… Infine ci stabilimmo a Damasco… Mio padre era ricco, e spendeva con metodo il suo denaro. Dopo un anno, quando il denaro finì, cominciammo a lavorare”.
“La gente – continua Abu Mazen – era motivata ad andarsene… Temevano ritorsioni da parte delle organizzazioni terroriste sioniste, particolarmente quelle di Safed. Quelli di noi che erano di Safed temevano soprattutto che gli ebrei nutrissero vecchi propositi di vendetta per ciò che era avvenuto durante la sommossa del 1929. Questo era nella memoria delle nostre famiglie e dei nostri genitori… Si rendevano conto che l’equilibrio delle forze stava cambiando, e quindi l’intera città venne abbandonata sulla base di questa logica: salvare la nostra vita e i nostri averi”.
E così, ecco la verità direttamente dalle labbra del gran capo dell’Autorità Palestinese. Lui, e proprio lui, attesta che nessuno espulse gli arabi da Safed. Il loro esilio fu il frutto di una scelta, spinti dalla chiara consapevolezza della loro responsabilità e dalla convinzione che gli ebrei si sarebbero mossi sulla base degli stessi standard di faida e di sangue che prevalgono nella cultura araba. In modo poco realistico immaginavano che gli ebrei avrebbero fatto loro esattamente ciò che gli arabi avevano fatto agli ebrei a Safed. Se questa era la loro premessa, avevano un ottimo motivo per andare nel panico.
La “sommossa” cui fa riferimento Abu Mazen fu uno dei pogrom istigati in serie dal famigerato mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, ancor oggi venerato in tutto il mondo arabo: un entusiasta collaboratore nazista residente a Berlino durante la seconda guerra mondiale, un criminale di guerra ricercato nel dopoguerra.
Nell’agosto 1929 Husseini chiamò a raccolta gli arabi per massacrare gli ebrei con il falso pretesto che gli ebrei complottassero per impadronirsi del Monte del Tempio. Sessantasette membri dell’antica comunità ebraica di Hebron furono orrendamente fatti a pezzi. Fu la mattanza più famosa, ma non l’unica che venne perpetrata in quell’occasione nel paese. Nell’altrettanto antica comunità ebraica di Safed, ventun ebrei furono massacrati in modo altrettanto orrendo (un gatto venne infilato nell’addome sventrato di una donna). Un bambino e una giovane donna che doveva sposarsi il giorno successivo furono uccisi a sangue freddo da poliziotti arabi assegnati dalle autorità mandatarie inglesi a sorvegliare la maggioranza degli ebrei di Safed che aveva cercato salvezza nel cortile della polizia.
Gli inglesi proposero che tutti gli ebrei di Safed venissero evacuati “per la loro sicurezza”, come era avvenuto a Hebron. L’offerta fu rifiutata con fermezza. Dopo di allora, e in particolare durante i furibondi attacchi del 1936-39 guidati dal mufti, i duemila ebrei della città vennero difesi dall’Haganà e dalle cellule dell’IZL di Safed. Tuttavia, l’infausta sera del 13 agosto 1936 dei razziatori arabi riuscirono a penetrare e invadere la modesta casa Unger, nel quartiere ebraico, mentre la famiglia stava cenando. Assassinarono il padre, Alter, 36enne scriba della Torah, le sue figlie Yaffa e Hava (9 e 7 anni) e il figlio di 6 anni Avraham.
Nel suo libro “Annali di Safed”, Natan Shor riporta il seguente racconto di un testimone oculare, uno dei primi vicini che si trovarono a passare di lì. “I ragazzi sentirono dei gemiti provenire da una delle case. Entrammo e in mezzo a una stanza buia, ammobiliata solo con un tavolo, una sedia rotta e uno scaffale pieno di libri soprattutto religiosi, giaceva il corpo di un uomo. Era stato colpito alla testa. Mancava metà cranio. Vedemmo solo la barba, parte del naso e l’occhio destro… Il cadavere giaceva in un lago di sangue e di materia cerebrale… Nell’altra stanza, tra i piatti rotti, giacevano tre bambini morti, coperti di sangue. Due avevano ancora gli occhi aperti. Una vecchia, la nonna, correva di stanza in stanza, impazzita dal dolore. La madre, anche lei ferita e probabilmente creduta morta, andava da un bambino all’altro. Non piangeva e non urlava. Guardando fisso, ripeteva piano in yiddish: ‘Se solo fosse toccata a me e non a voi’. Aveva una mano sanguinante e un dito amputato pendeva da un lembo di pelle”.
Ecco cos’era stata la “sommossa” per cui i parenti di Abu Mazen si aspettavano di subire vendetta. Paradossalmente gli ebrei furono messi in allarme dalla fuga degli arabi, immaginando che presagisse un grande massacro da parte degli eserciti arabi invasori (cosa che effettivamente venne tentata). In molte zone (a Haifa, per esempio) gli ebrei pregarono gli arabi del posto di restare. Ma gli arabi di Safed e di tante altre località, seguendo le esortazioni dei loro capi di andarsene, inseguiti dagli incubi che suscitavano le loro (ma non degli ebrei) tradizioni di vendetta, fecero ciò che era più logico e assennato alla luce della loro convinzione che gli ebrei si sarebbero comportati secondo il codice arabo.
La vigilia del 16 aprile 1948, giorno del ritiro degli inglesi da Safed, le autorità mandatarie consegnarono agli arabi le strutture della polizia e il forte militare di Monte Canaan. Si offrirono di scortare tutti gli ebrei fuori dalla città “per la loro sicurezza”. Come nel 1929, gli ebrei rifiutarono decisamente, benché il ricordo dell’orrenda carneficina avrebbe dovuto infondere più terrore tra loro che tra gli arabi in fuga.
Perché questa testimonianza di Abu Mazen di capitale importanza non ha avuto la debita risonanza sulla nostra stampa? Perché i mass-media anche israeliani hanno largamente ignorato i ricordi del presidente dell’Autorità Palestinese?
È di rigore perpetuare il mito della colpa di Israele, da esibire come un attestato di pensiero illuminato. Niente deve scalfire la narrazione, potente e fraudolenta, dei profughi palestinesi, nemmeno le memorie del gran capo dei palestinesi, per non parlare di quelle degli ebrei: quelle si possono ignorare completamente.
Ecco perché oggi gli abitanti di Safed devono richiedere alla municipalità di non demolire la vecchia casa Unger, ma di conservarla come un sito storico commemorativo.

(Da: Jerusalem Post, 17.07.09)

Vedi anche:
La nazionalità palestinese e le dure repliche della storia. Riflessioni intorno a un illuminante lapsus di Abu Mazen