Ahed Tamimi e il suo clan: molto odio, nessun eroismo

Il problema non sono la ragazza né le sue “idee”: il problema è l’uso che ne fanno gli altri

Di Arnold Roth

A sinistra: Malki Roth, 15 anni, uccisa insieme ad altri 14 civili israeliani nell’attentato alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme del 9 agosto 2001. A destra: suo padre, Arnold Roth, autore di questo articolo

La mia dolcissima figlia Malki, piena di empatia e generosità verso gli altri, sempre con un sorriso sulle labbra, aveva 15 anni quando fu assassinata nella strage della pizzeria Sbarro, in questi stessi giorni di 17 anni fa. L’esperienza di perderla, di cercare di riequilibrare la mia vita e quella della mia famiglia, e di cercare di dare un senso alle reazioni degli altri, ha forgiato in gran parte ciò che penso riguardo al terrorismo.

Sappiamo chi ha progettato lo spietato massacro alla pizzeria Sbarro. Non è stata Ahed Tamimi (che nasceva proprio in quell’anno). Ma quando il suo clan, i Tamimi del villaggio di Nabi Saleh, si riuniscono per celebrare il massacro, come sappiamo che fanno regolarmente, lei partecipa entusiasta ai festeggiamenti. In un villaggio dove quasi tutti sono imparentati fra loro e si sposano fra loro, Ahed è parente stretta, in vario modo, di Ahlam Tamimi, uno dei diretti responsabili della carneficina in cui è stata trucidata mia figlia. Ahlam ora vive libera in Giordania. Si vanta di essere stata quella che ha scelto il luogo per l’attentato suicida con l’obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di ragazzini ebrei, e di avervi condotto la “bomba umana”. Sui social network, nei suoi interventi pubblici e (per cinque anni) nel suo programma televisivo, ha continuato ad esortare gli altri a seguire il suo esempio. Quando Ahlam sposò Nizar Tamimi, un altro assassino originario dello stesso villaggio, pochi mesi dopo che entrambi erano stati scarcerati nel quadro del ricatto di Hamas per la liberazione dell’ostaggio israeliano Gilad Shalit, l’undicenne Ahed era lì a ballare e a rimirare in adorazione la sposa.

Questo post diffuso nell’agosto 2015 da Nariman, madre di Ahed Tamimi, si domanda per quattro volte: “Questo è il volto di una terrorista” e per quattro volte la risposta è: “No, è il volto di una ribelle”. Le persone raffigurate sono quattro terroriste complessivamente responsabili di 55 morti (tra cui 21 minorenni) e più di 300 feriti o mutilati. Nella foto più grande: Ahlam Tamimi, responsabile dell’attentato alla pizzeria Sbarro

Ma il problema non sono né il suo sguardo adorante, né le sue “idee”. Il problema è l’uso che ne fanno gli altri. I genitori di Ahed hanno fatto della propaganda violenta contro Israele una professione. Hanno plasmato e addestrato la piccola Ahed, sfruttando il suo aspetto accattivante, e l’hanno spinta in tutta una serie di messinscena conflittuali con i soldati israeliani sin da quando aveva 10 anni, deliberatamente mettendola quasi ogni settimana, per anni, in situazioni di concreto pericolo, molto prima che lei avesse la capacità di capire cosa le stavano facendo.

Sebbene tutto quello che avevano per le mani erano le immagini in gran parte sceneggiate della piccola, patetica Ahed che levava i pugni contro soldati israeliani (che la sopportavano, guardandosi bene dal reagire), troppi giornalisti e capiredattori hanno proposto e continuano a proporre assurdi paragoni con Giovanna d’Arco e Malala Yousafzai. Il giorno in cui Ahed prese a schiaffi, calci e sputi i due soldati del celebre video, sua madre le puntò addosso una delle sue telecamere dicendole di parlare al mondo. E lei eseguì, con un messaggio rabbioso in cui esortava alla violenza contro Israele e a nuovi attentati suicidi (come quello che ha ucciso mia figlia). Quel video-messaggio è stato pubblicato e diffuso, ed è facilmente disponibile (sostanzia uno dei capi d’accusa che le sono stati imputati dal tribunale israeliano). Eppure ciò che Ahed dice in quel video è stato e continua ad essere completamente ignorato, come se non avesse mai detto nulla. L’agghiacciante realtà che quel messaggio riflette era, e continua ad essere, disconosciuta.

L’uso dei bambini arabi palestinesi come armi per mano della loro stessa società, persino delle loro stesse famiglie, è così incomprensibile per gli estranei che molti preferiscono chiudere gli occhi e negare questa realtà, anche solo per questo motivo. E negare ciò che Ahed simboleggia: la totale immedesimazione con gli spietati assassini del suo clan famigliare, con l’odio deflagrante, con un orrendo fanatismo che induce le persone a spingere in prima linea i loro bambini innocenti. Gli arabi palestinesi hanno molte esigenze da rivendicare, ma ciò che questa ragazza rappresenta – più rabbia, più amarezza, più fallimenti – non offre loro nulla che abbia valore.

Ma a loro non giunge nulla di tutto questo dall’industria delle notizie: dai giornalisti e opinionisti che hanno eretto un pulpito internazionale per Ahed Tamimi e per coloro che la gestiscono. Né giunge loro nulla di tutto questo dai loro fallimentari capi e dirigenti, che sfruttano Ahed Tamimi come un ennesimo strumento a buon mercato per distrarre dal disastro in cui hanno condotto la loro gente.

(Da: Jerusalem Post, 30.7.18)

Uri Pilichowski

Scrive Uri Pilichowski: «Ancora non sapevo cosa fossero il villaggio di Nabi Selah e la famiglia Tamimi quando nell’estate del 2017 due organizzazioni, Breaking the Silence e T’ruah, mi portarono nella casa di Ahed Tamimi, pochi mesi prima ch’ella inscenasse la prodezza che l’ha portata in carcere. Ci era stato detto che si trattava di sostenitori della resistenza “non violenta” alla Gandhi e alla Martin Luther King. Fui allarmato dalla risposta che diede il padre di Ahed a una domanda sul terrorismo: “Tutte le forme di resistenza sono permesse di fronte all’occupazione”. Una semplice ricerca su Google rivelò poi una lunga sequenza di esaltazioni del terrorismo, dell’odio antisemita, della violenza contro ebrei e israeliani. Persino la staccionata della casa riportava in bella vista la scritta a spray: “Dal fiume al mare” (lo slogan per la cancellazione di Israele dalla carta geografica). Mentre sedevo in casa Tamimi, non potevo fare a meno di domandarmi che effetto possano fare sulla mente di un bambino martellanti discorsi di odio e violenza e la sconfinata ammirazione per i parenti che fanno saltare in aria pizzerie piene di ragazzi. Non credo esista un solo psicologo infantile che non definirebbe casa Tamimi e l’educazione ricevuta da Ahed come una forma di abuso su minori. So bene che la vita palestinese non è felice, ma so anche che è ben lontana dall’orrenda oppressione che viene descritta. Gli arabi palestinesi dovrebbero abbandonare l’eterno vittimismo. Ogni nazione moderna che abbia avuto qualche successo lo ha fatto assumendosi, prima o poi, le proprie responsabilità. Usare i bambini come scudi umani a Gaza per coprire terroristi e cecchini, mandare ragazzini di 17 anni ad accoltellare israeliani come è avvenuto la scorsa settimana ad Adam, insegnare a ragazzine in età scolare a provocare, insultare e aggredire soldati a beneficio delle videocamere, sono tutte forme di abuso dei minori e di sequestro dell’infanzia. Non è vero che Ahed oggi è libera: Ahed non sarà libera finché verrà cresciuta in un ambiente impregnato di vittimismo, odio e violenza.» (Da: Times of Israel, 19.7.18)

In questo filmato si vede la piccola Ahed Tamimi (indicata nel cerchio rosso) che con tutta evidenza aspetta il “via” dall’cineoperatore prima di iniziare a provocare, a freddo, il soldato israeliano. Anche in quella occasione, chi filmava sperava (invano) in una risposta violenta del militare: