Antisionismo e antisemitismo non aiutano per nulla i palestinesi

Nella ricorrenza del 29 novembre i sedicenti amici dei palestinesi dovrebbero capire che il sostegno alle rivendicazioni massimaliste e contro ogni concessione serve solo a perpetuare l’illusoria intransigenza che portò alla nakba

Di Mark Regev

Mark Regev, autore di questo articolo

L’anniversario dello storico piano di spartizione delle Nazioni Unite approvato il 29 novembre 1947 (risoluzione 181) non ci ricorda soltanto che fu il rifiuto palestinese a impedire la nascita di uno stato palestinese accanto a Israele. Ci ricorda anche che coloro che oggi sostengono una posizione intransigente e senza compromessi non fanno che rifilare ai palestinesi la stessa merce avariata che già allora fu una disgrazia per i palestinesi.

Per gli ebrei della Palestina Mandataria, e per le successive generazioni di israeliani, il 29 novembre è la data in cui la comunità internazionale approvò formalmente lo stato ebraico. Molti lettori avranno visto i cinegiornali originali in bianco e nero del voto del 1947 sulla proposta di spartizione formulata dal Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (UNSCOP), con gli ebrei della Palestina Mandataria incollati alla radio ad ascoltare la trasmissione in diretta da Lake Success annotando diligentemente il voto di ogni paese nelle colonne “sì”, “no” o “astensione”, e lo scoppio di celebrazioni spontanee quando venne finalmente raggiunta la maggioranza dei due terzi, con le strade di Tel Aviv e Gerusalemme che si riempivano di gente entusiasta che ballava la hora.

Ma nell’organismo stesso dove si svolse quello storico voto, il 29 novembre non è un giorno di festa. È stato ufficialmente designato “Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese” e viene usato per organizzare ogni anno nella sede delle Nazioni Unite una serie di eventi anti-israeliani. In sintesi, l’anniversario della risoluzione 181 è diventato proprio all’Onu un pretesto per organizzare eventi contro l’esistenza di Israele.

Mappa della Palestina esposta all’Onu in occasione di una Giornata della Solidarietà palestinese: ribadito in pieno il catastrofico rifiuto del ’47, Israele è cancellato dalla carta geografica

Per i palestinesi, la risoluzione 181 rimane motivo di grande disagio. Trovano assai difficile giustificare di fronte a se stessi e alla comunità internazionale la loro categorica opposizione alla proposta di compromesso formulata dalle Nazioni Unite in un momento di svolta storico, alla fine del Mandato Britannico. Allo stesso tempo, i palestinesi considerano il voto della grande maggioranza a favore della 181, e non il loro rifiuto della risoluzione, come la causa delle tragiche sconfitte subìte nel 1947-48 e in seguito. Ma il rifiuto perdura. A 74 anni da quel rifiuto, la dirigenza palestinese continua ad avere un serio problema con la legittimazione, che quella risoluzione rappresentava, del diritto del popolo ebraico ad avere un proprio stato sovrano indipendente. C’è un solo elemento della 181 che torna utile ai palestinesi. Amano presentare i confini proposti dalla risoluzione (e da loro rifiutati) come se fossero confini reali, perché attribuivano allo stato palestinese un territorio più ampio rispetto alle linee del 1949-67 largamente accettate fuori da Israele.

Il discorso tenuto dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen alle Nazioni Unite lo scorso settembre rifletteva queste contraddizioni. Ha minacciato l’Assemblea Generale di chiedere a nome dei palestinesi di tornare ai “confini” della 181, senza spostarsi minimamente dalla sua ripetuta affermazione secondo cui i palestinesi non accetteranno mai uno stato ebraico. A differenza di oggi, la dirigenza palestinese di allora non cercò di estrapolare dalla 181 una parte conveniente: il suo rifiuto del piano a due stati proposto dalle Nazioni Unite del 1947 fu totale e senza eccezioni. Un decennio prima i palestinesi si erano schierati contro una proposta di spartizione britannica ancora più disponibile (il piano della Commissione Peel del 1937) che offriva loro molta più terra. L’intransigenza palestinese si dimostrò nel rifiuto non solo delle varie proposte di soluzione a due stati, ma anche delle proposte di soluzione bi-nazionale. Nel 1939 la dirigenza palestinese si oppose al Libro Bianco britannico che (tradendo il Mandato della Società delle Nazioni) prometteva un’unica Palestina indipendente con una chiara maggioranza araba su tutto il territorio del Mandato. E nel 1947 i palestinesi si opposero anche al rapporto di minoranza dell’UNSCOP che prevedeva un unico stato federato arabo-ebraico. In conclusione, la dirigenza palestinese ha sempre adottato un approccio “tutto o nulla” totalmente antitetico alla possibilità di un compromesso con gli ebrei: una somma di fanatismo e follia che ha prodotto l’auto-inflitta nakba (“catastrofe”).

Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen: “Non riconoscerò mai uno stato ebraico”

C’è qui un insegnamento per tutti i militanti “amici” dei palestinesi nel mondo. La demonizzazione di Israele, il sostegno senza se e senza ma alle rivendicazioni massimaliste, la zelante opposizione a qualsiasi concessione non aiutano i palestinesi. Queste posizioni non fanno che supportare la perpetuazione di quel vano approccio intransigente che fu proprio ciò che determinò la nakba. Da Dublino a Durban a Detroit, coloro che esortano i palestinesi a rimanere fermi e inflessibili, proclamando fede assoluta nella vittoria finale, spacciano una bugia. Ogni indicatore punta nella direzione opposta. Ogni anno che passa Israele è più forte, anche militarmente, più influente diplomaticamente, più integrato a livello regionale, più importante economicamente, più consistente demograficamente e più avanzato tecnologicamente. Non c’è nulla che faccia pensare che i palestinesi potranno in qualche modo imporre le loro condizioni. Caldeggiando una posizione massimalista scollegata dalle realtà strategiche, questi “amici” non fanno che alimentare l’intransigenza che può solo portare il popolo palestinese in un vicolo cieco politico.

Una posizione così insostenibile non risponde ad alcuna logica, a meno che la solidarietà pubblicamente professata da questi militanti filo-palestinesi non sia altro che un velo per coprire il più antico degli odi. Naturalmente si sa che l’accusa di antisemitismo suscita spesso un rigetto automatico, giacché appare come un tentativo di mettere a tacere le critiche a Israele. Ma negare una connessione tra estremismo sedicente filo-palestinese e antisemitismo significa non voler vedere la realtà. Innanzitutto, a livello sostanziale, gli attivisti anti-sionisti negano l’esistenza del popolo ebraico e rifiutano agli ebrei quel diritto all’autodeterminazione nazionale che loro stessi rivendicano per tutti gli altri a cominciare dai palestinesi. Come si deve definire l’atteggiamento di chi sostiene un principio universale, ma lo nega solo agli ebrei? In secondo luogo, ci sono numerosi casi ben documentati di individui e gruppi apparentemente schierati a sostegno dei diritti dei palestinesi, ma smascherati da straripanti manifestazioni di pregiudizio e odio verso gli ebrei, negazionismo della Shoà, teorie del complotto ebraico ecc. Infine, diverse ricerche sociologiche hanno rilevato una chiara correlazione statistica tra attivismo anti-israeliano e antisemitismo. Se intervistati, gli attivisti filo-palestinesi più intransigenti hanno molte maggiori probabilità di altri di nutrire forti pregiudizi antisemiti, mentre gli attivisti filo-palestinesi più morbidi hanno più probabilità di nutrire sentimenti antisemiti più blandi. Una volta verificato sul piano sostanziale, sul piano empirico e sul piano statistico, il pregiudizio anti-ebraico dei movimenti estremisti di solidarietà palestinese appare inequivocabile, indipendentemente da quanto esse stessi cerchino di negarlo.

Amici autentici non incoraggerebbero i palestinesi a ripetere i tragici errori del 29 novembre 1947. Per gli antisemiti, invece, non è affatto un problema.

(Da: Jerusalem Post, 25.11.21)