Inutile illudersi che povertà e disperazione siano le cause del terrorismo

Come dimostrano dati e ricerche, è vero il contrario: è la violenza endemica generata dall’estremismo che causa crisi economica e umanitaria

Di Akiva Bigman, Efraim Karsh

Akiva Bigman

Scrive Akiva Bigman: Uno degli argomenti più ripetuti come motivazione alla base della recente ondata di violenze al confine fra Gaza e Israele è la pesante condizione e la disperazione della oppressa popolazione nella enclave controllata da Hamas. Lasciando da parte per il momento la questione su chi sia il vero responsabile della situazione a Gaza e su come migliorarla, soffermiamoci piuttosto su una domanda: il terrorismo è davvero frutto della povertà e della disperazione?

La ricorrente convinzione che il terrorismo sia causato dalla disperazione della gente è vecchia quanto lo stesso terrorismo palestinese e risale a molto prima della recente crisi umanitaria a Gaza. Il terrorismo palestinese ha costantemente colpito, nel corso degli anni: anche durante il periodo della vistosa crescita socio-economica nei Territori degli anni ’80, durante il periodo dei promettenti colloqui di pace degli anni ’90 e per tutti gli anni 2000 ben prima che la situazione degenerasse drammaticamente a Gaza dopo la salita al potere di Hamas nel 2007.

Una grande quantità di dati e ricerche sul terrorismo e sulle sue motivazioni condotte negli anni scorsi confutano l’idea che esista una relazione causale tra povertà/sudditanza e terrorismo. Le identità dei terroristi palestinesi del passato evidenziano molto bene questo punto. La cooperante pakistana Nasra Hassan scrisse sulla rivista The New Yorker nel 2001, all’epoca della “seconda intifada” con le stragi suicide nei bus e nei bar israeliani: “Nessuno degli attentatori suicidi, di età compresa tra i 18 e i 38 anni, corrispondeva al tipico profilo della personalità suicida. Nessuno di loro era illetterato, disperatamente povero, depresso o debole di mente. Molti erano borghesi, avevano un lavoro ben pagato. Due erano figli di milionari”.

Da allora le cose non sono cambiate, come si è visto durante la cosiddetta “intifada dei coltelli” degli anni 2015-16. Nell’ottobre 2015, lo studioso palestinese Bassam Tawil ha visitato le case dei terroristi e ha riferito sulle loro condizioni di vita: “Nessuno dei giovani palestinesi coinvolti nei recenti attacchi terroristici viveva in un tugurio, in una tenda e nemmeno in un appartamento in affitto. Tutti vivevano in case di proprietà delle rispettive famiglie e avevano accesso illimitato a internet. Tutti possedevano smartphone con cui potevano condividere le loro opinioni su Facebook e Twitter e, tra le altre cose, impegnarsi in un’attività sfrenata istigazione all’odio contro Israele ed ebrei”.

Da una trasmissione per bambini della TV palestinese. Conduttrice: “Ad Allah piacendo, quando diventerete grandi…”. Bambina ospite in studio: “Così potrò sparare agli ebrei”

Esaurienti studi statistici frutto di anni di ricerche lo confermano. Il professor Alberto Abadie, dell’Università di Harvard, ha raccolto dati da tutto il mondo sulla prevalenza del terrorismo nel 2004 e sulla sua correlazione con le circostanze economiche. La sua conclusione è che non è riuscito a “trovare un’associazione significativa tra terrorismo e variabili economiche”. Un’altra ricerca che ha indagato la connessione tra disoccupazione e terrorismo in Iraq e nelle Filippine è arrivata a una conclusione sorprendente: “La disoccupazione è correlata a minore violenza”. La ricerca suggeriva di riconsiderare radicalmente la politica internazionale tesa a pompare aiuti finanziari con l’idea di ridurre in questo modo la motivazione al terrorismo. Una ricerca incentrata sull’esperienza israelo-palestinese è giunta a una conclusione simile affermando che, dati alla mano, è impossibile dimostrare che “ridurre la povertà o migliorare l’istruzione riuscirà, di per sé, a ridurre il terrorismo”. I ricercatori citavano, fra l’altro, un sondaggio tra i palestinesi durante la “seconda intifada” da cui risultava che il tasso di supporto per gli atti terroristici contro civili israeliani rimaneva costante indipendentemente dallo status, dal reddito e dall’impiego lavorativo. Uno studio sui metodi di reclutamento in Occidente del gruppo jihadista Stato Islamico ha concluso: “I nostri risultati indicano che il flusso di combattenti stranieri verso l’ISIS non è guidato dalle condizioni economiche o politiche, quanto piuttosto dall’ideologia”.

Il punto è chiaro: il terrorismo non scaturisce dalla povertà e dalla sudditanza. Il terrorismo trova le sue principali motivazioni nelle ideologie estremiste, nelle aspirazioni nazionali, nelle agende politiche. Sono le persone istruite quelle che hanno gli strumenti per interiorizzare e agire su queste idee, e i mezzi per reperire le risorse necessarie alle attività sovversive. Non è un caso che i capi dei movimenti sovversivi di solito provengano dal ceto più istruito, e spesso anche facoltoso, di una popolazione. Il fondatore e capo di Al-Qaeda, Osama bin Laden, era nato in una famiglia della élite saudita e aveva conseguito una laurea in business management. Yasser Arafat aveva conseguito una laurea in ingegneria presso l’Università del Cairo.

Il terrorismo non ha alcuna connessione con la povertà. E’ piuttosto vero il contrario. L’esperienza ci insegna che più risorse finiscono nelle mani di Hamas, più l’organizzazione le usa per dotarsi di mezzi sempre più avanzati per promuovere i suoi obiettivi principali: uccidere ebrei e tentare di distruggere lo stato di Israele. La condizione degli abitanti di Gaza è pesantissima, ma la responsabilità di questa situazione ricade tutta su Hamas.

(Da: Israel HaYom, 7.6.18)

Efraim Karsh

Scrive Efraim Karsh: Non appena Hamas e Israele si sono contrapposti in un nuovo scontro violento, i mass-media, gli esperti di politica estera e i politici di tutto il mondo hanno ricominciato a sollecitare un’immediata riabilitazione economica della striscia di Gaza come toccasana contro la sua endemica propensione alla violenza. L’argomento appare convincente, eppure non solo è completamente infondato, ma è il contrario della verità. Infatti, non è il malessere economico a Gaza che scatena la violenza palestinese. E’ invece la violenza endemica che causa la crisi umanitaria nella striscia.

Sono innumerevoli le nazioni e i gruppi, nel mondo di oggi, che patiscono condizioni socio-economiche o politiche molto più severe di quelle palestinesi, eppure nessuno di loro abbraccia la violenza e il terrorismo contro i propri vicini con tale solerzia e su una scala così grande. E’ dimostrato che non esiste una relazione causale tra le difficoltà economiche e la violenza di massa. Al contrario, nel mondo moderno non sono stati i poveri e gli oppressi quelli che hanno compiuto i peggiori atti di terrorismo e violenza, quanto piuttosto le avanguardie militanti fra i circoli più istruiti e ricchi della società, sia che si tratti dei terroristi endogeni in Occidente sia delle loro controparti mediorientali. Yasser Arafat, ad esempio, era un ingegnere e il suo collega arci-terrorista George Habash, il pioniere dei dirottamenti aerei, era un medico. Hassan al-Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani, era un insegnante e il suo successore, Sayyid Qutb, il cui esasperato islam ha infiammato generazioni di terroristi compreso il gruppo responsabile dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat, era un critico letterario e saggista. I terroristi dell’11 settembre, per non dire del loro miliardario finanziatore Osama bin Laden, così come i terroristi che massacrarono i loro concittadini britannici nel luglio 2005 e quelli che massacravano i loro correligionari in Algeria e Iraq, non erano miseri contadini o lavoratori indigenti spinti dalla disperazione, bensì fanatici istruiti, motivati dall’odio e da ideali religiosi e politici estremisti.

Hamas non fa eccezione. Non solo la sua dirigenza è altamente istruita, ma si è anche adoperata per far studiare i suoi seguaci, in particolare impadronendosi dell’Università islamica di Gaza, trasformata in un vivaio per l’indottrinamento di generazioni di attivisti e terroristi. Il fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, aveva studiato all’Università al-Azhar del Cairo, probabilmente la più prestigiosa istituzione di cultura religiosa del mondo islamico. Il suo successore, Abdel Aziz Rantisi, era un medico, così come il co-fondatore di Hamas, Mahmoud Zahar. L’attuale capo del gruppo, Ismail Haniyeh, e Muhammad Def, capo dell’ala militare, sono laureati all’Università islamica di Gaza, mentre Khaled Mashaal ha studiato fisica nel Kuwait, dove ha abitato fino al 1990. Non esattamente il profilo di figli della privazione senza speranza.

Il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, ai ragazzini in un campo estivo a Gaza: “Ebrei, state attenti, questa generazione non ha paura di affrontarvi: questa è la generazione delle pietre! Questa è la generazione dei missili! Questa è la generazione dei tunnel! Questa è la generazione degli attentatori suicidi!”

La propensione alla violenza tra le classi istruite e facoltose della società palestinese si rifletteva nitidamente nell’identità dei 156 uomini e otto donne che si fecero esplodere nelle città israeliane durante i primi cinque anni della “intifada di al-Aqsa” trucidando 525 persone, per la stragrande maggioranza civili. Solo il 9% degli autori aveva un’istruzione elementare, mentre il 22% erano laureati e il 34% erano diplomati. Analogamente, uno studio completo dei terroristi suicidi di Hamas e della Jihad Islamica dalla fine degli anni ’80 al 2003 ha rilevato che solo il 13% proveniva da un ambiente povero, molto meno del 32% della popolazione palestinese generale. Più della metà degli attentatori suicidi aveva iniziato studi superiori, contro il 15% della popolazione generale. Per contro, una serie di sondaggi d’opinione tra i palestinesi di Cisgiordania e Gaza negli anni ’90 registravano un sostegno molto più forte al nascente processo di pace con Israele e un’opposizione al terrorismo tra i ceti più poveri e meno istruiti. Così, ad esempio, l’82% delle persone con un basso livello di istruzione sosteneva l’accordo del settembre 1995 che prevedeva il ritiro di Israele dalle aree più popolate da palestinesi in Cisgiordania (attuato negli anni seguenti), e l’80% si opponeva ad attacchi terroristici su civili israeliani, contro rispettivamente il 55% e il 65% tra i laureati.

In breve: non è la disperazione socio-economica, ma il totale rifiuto del diritto di esistere di Israele, inculcato dall’Olp e da Hamas, che sta alla base dell’incessante violenza anti-israeliana proveniente da Cisgiordania e Gaza, e la loro conseguente stagnazione e depressione economica. All’epoca della firma della Dichiarazione di Principi Israele-Olp del 13 settembre 1993, le condizioni nei territori erano molto migliori di quelle nella maggior parte degli stati arabi, nonostante il forte declino economico causato dall’intifada del 1987-93. Già sei mesi dopo l’arrivo di Arafat a Gaza (luglio 1994), il tenore di vita nella striscia era diminuito del 25% e più della metà degli abitanti dell’area affermavano che stavano meglio sotto Israele. Ciò nonostante, quando Arafat nel settembre 2000 lanciò la sua guerra terroristica (l’intifada delle stragi suicide), il reddito pro capite palestinese era ancora quasi il doppio di quello in Siria, più di quattro volte quello nello Yemen e il 10% più alto di quello in Giordania, uno degli stati arabi più abbienti. Solo i ricchi stati petroliferi del Golfo e il Libano stavano mediamente meglio dei palestinesi dei Territori. Al momento della morte di Arafat, nel novembre 2004, la sua guerra terroristica aveva ridotto questo reddito a una frazione del livello precedente, con un Pil pro capite reale del 35% circa inferiore al livello pre-settembre 2000, una disoccupazione più che raddoppiata e numerosi palestinesi ridotti alla povertà e allo sconforto. La repressione della guerra terroristica da parte di Israele generò una ripresa costante, tanto che gli anni 2007-11 registrarono una crescita media annua palestinese superiore all’8%. Ma le guerre scatenate da Hamas si accompagnarono a una recessione che a metà del 2014 si era ormai affermata, soprattutto nella striscia di Gaza. In effetti, il divario crescente tra Cisgiordania e Gaza negli anni dopo Oslo (la differenza del reddito pro capite è aumentata dal 14% al 141%), oltre a riflettere la superiorità socio-economica di base della prima rispetto alla seconda, è stato una conseguenza diretta della trasformazione della striscia ad opera di Hamas in un’entità terroristica mai riabilitata, in contrasto con la relativa tranquillità della Cisgiordania negli anni successivi alla fine dell’intifada Al-Aqsa. Il che significa che, finché Gaza continuerà ad essere governata dalla legge della giungla di Hamas, nessuna società civile palestinese, per non dire uno stato funzionante, potrà mai svilupparsi.

(Da: Jerusalem Post, 3.6.18)