Perché di queste due vittime palestinesi una sola è diventata eroe nazionale

Shireen Abu Akleh è morta in uno scontro con le forze israeliane, Nizar Banat è morto nelle celle della forze di sicurezza palestinesi, ma per noi palestinesi solo la giornalista è diventata un’icona martire della libertà

Di Rajaa Natour

Rajaa Natour, autrice di questo articolo

La famosa giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, colpita a morte durante un’azione militare israeliana nel campo palestinese di Jenin lo scorso maggio, è diventata un’icona nazionale palestinese. Era una donna cristiana forte e indipendente, una giornalista coraggiosa che ha dedicato la vita a coprire le ingiustizie dell’occupazione. La storia della sua incredibile vita e della sua tragica morte serve perfettamente alla narrazione nazionale palestinese. Per questo, da mesi il suo nome viene diffusamente utilizzato da esponenti e attivisti palestinesi e continuerà ad apparire nel discorso palestinese per gli anni a venire.

Lo stesso non si può dire di Nizar Banat, un altro coraggioso attivista palestinese che ha pagato il prezzo più alto per i suoi ideali. Banat, attivista per i diritti umani ed energico critico dell’Autorità Palestinese, è morto nel giugno 2021 dopo essere stato arrestato dalle forze di sicurezza palestinesi. È morto nella cella di una prigione, nel cuore della notte, a causa di un’emorragia interna. La morte di Banat ha suscitato diverse proteste nelle città di Cisgiordania contro la corruzione dell’Autorità Palestinese e la repressione che essa esercita sulle voci dell’opposizione. Ma le proteste sono state disperse e ben presto dimenticate. Banat non avrà mai lo stesso status di “martire palestinese” conferito ad Abu Akleh.

La giornalista Shireen Abu Akleh e l’attivista Nizar Banat

L’opinione condivisa tra i palestinesi è che eroi palestinesi sono solo coloro che vengono uccisi dall’occupazione israeliana. Martire è solo chi viene colpito a morte dalle Forze di Difesa israeliane o dal Mossad. Ma che ne è dei palestinesi che si sono battuti per la libertà e contro l’ingiustizia e sono stati uccisi dalle forze che predominano nell’arena palestinese? Le loro storie non servono alla narrazione nazionale, quindi finiscono invariabilmente per essere cancellate.

Si prenda ad esempio il fumettista Naji al-Ali, ucciso a colpi d’arma da fuoco a Londra nell’agosto 1987. Nella storiografia palestinese, Naji al-Ali (ideatore fra l’altro del famosissimo Handala ndr) viene abitualmente descritto come vittima di uno spietato assassinio da parte del Mossad. A suo tempo era uno dei palestinesi più importanti sui mass-media arabi e le sue vignette, che criticavano l’occupazione israeliana così come i regimi arabi in Medio Oriente, erano diventate famose in tutto il mondo. La versione universalmente condivisa in campo palestinese è che sia stato Israele a ucciderlo per mettere a tacere la sua voce. Ma le mie ricerche sulla sua morte (così come le stesse indagini condotte in Inghilterra ndr) dimostrano che non ci sono elementi concreti a sostegno di questa tesi e che anzi potrebbe ben darsi che della sua uccisione sia stata responsabile la dirigenza di Fatah, incluso lo stesso Yasser Arafat. Prima della sua morte, lo stesso Naji al-Ali aveva rivelato d’aver ricevuto minacce da parte di Arafat, che una volta aveva pubblicamente minacciato l’artista dicendo che, se non avesse smesso di criticarlo con le sue vignette, lui gli avrebbe “ficcato le dita nell’acido”. Naji al-Ali aveva pubblicato una vignetta su Rashida Mahran, che all’epoca si diceva fosse l’amante di Arafat (successivamente The Observer ripubblicò la vignetta, accompagnata da un articolo intitolato “La vignetta che è costata la vita al suo disegnatore” ndr). Secondo quanto riportato dai mass-media arabi, ci fu anche una telefonata minacciosa tra Naji al-Ali e il mitico poeta palestinese Mahmoud Darwish, che protestava per una vignetta critica sul suo conto. Secondo alcune fonti arabe, Darwish disse al fumettista: “Non provarti a scherzare con me”.

Rajaa Natour: “Nizar Banat non avrà mai lo stesso status di martire palestinese conferito ad Shireen Abu Akleh”

Non esiste una “pistola fumante” che colleghi Arafat e i suoi all’omicidio di Naji al-Ali, ma anche gli indizi a carico del Mossad sono tutt’altro che convincenti. Tuttavia, nella narrativa nazionale palestinese c’è un’unica versione accettabile: in quanto icona palestinese, Naji al-Ali deve essere stato assassinato da Israele.

Nell’attuale discorso palestinese non c’è spazio per eroi che non siano vittime della violenza israeliana. E non sono previsti palestinesi carnefici: solo vittime. Nell’attuale narrativa nazionale palestinese non c’è spazio per eventi che mettano in discussione questo vittimismo a senso unico. Ammettere che vi sono anche casi che non rientrano in questo punto di vista manderebbe in frantumi la legittimità della narrazione stessa. Di conseguenza, il ricorrente processo di “santificazione” nazionale palestinese – che può funzionare solo in una realtà in cui il colpevole di ogni morte palestinese è Israele – ignora il fatto che anche noi palestinesi possiamo essere carnefici, e non solo vittime. Le minacce che Naji al-Ali ricevette da Arafat e da Darwish non faranno mai parte della narrativa palestinese, così come la morte di Nizar Banat in circostanze molto sospette.

Niente di tutto questo assolve Israele dalle sua responsabilità nell’occupazione militare. Ma il discorso nazionale palestinese non può includere solo la vittimizzazione a senso unico. Noi palestinesi dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo, senza paura di danneggiare la nostra narrativa. Noi palestinesi dobbiamo chiedere giustizia a Israele per ciò che fa, e allo stesso tempo avere il coraggio di spalancare “l’archivio degli omicidi palestinesi” e avviare un vero dibattito sulla giustizia all’interno del nostro discorso nazionale.

(Da: Ha’aretz, 8.11.22)