Primo: porre un limite al numero di mandati

Israele ha più volte dimostrato di non essere né troppo orgoglioso né troppo arrogante per correggere fallimenti ed errori

Editoriale del Jerusalem Post

Il primo ministro Benjamin Netanyahu (a destra) e il leader del partito Blu-Bianco Benny Gantz, alla Knesset, durante la cerimonia per i 24 anni dall’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin

Prima o poi tutto questo sarà alle nostre spalle. Prima o poi lo stato d’Israele avrà un governo con un primo ministro stabile, e non di transizione. Prima o poi il paese avrà un esecutivo che si riunisce regolarmente con l’autorità per prendere decisioni cruciali, una Knesset che approverà effettivamente le leggi e una legge di bilancio a pieno titolo.

Quando arriverà quel giorno, bisognerà fare il punto della situazione. La nazione dovrà guardare indietro e vedere cosa è andato storto e come ha potuto perdere un anno intero di buon governo: il genere di governo a cui hanno diritto i cittadini e che le sfide di questa regione esigono. Bisognerà fare il punto non per distribuire colpe: la crisi politica che attanaglia questo paese da quando Avigdor Liberman innescò il processo elettorale dimettendosi da ministro della difesa da 2018, conosce molti padri e molte madri. Fare il punto, piuttosto, per evitare che una situazione come questa abbia a ripetersi.

Uno dei punti di forza di questo paese è la sua capacità di correggersi. Israele ha spesso dimostrato di non essere né troppo orgoglioso né troppo arrogante per ammettere gli errori. Anzi, quando si verificano fallimenti, soprattutto in campo militare, ha dimostrato più volte di essere capace di indagare a fondo in modo che non accadano più. E quest’anno appena trascorso è stato un vero e deprimente fallimento politico.

Israele non è l’Italia o la Spagna, paesi che non hanno vicini votati alla loro distruzione e che possono permettersi il lusso di andare ad elezioni a brevi intervalli o di avere governi che durano pochi mesi. Israele, considerando la sua posizione e le sfide esistenziali che deve affrontare, ha bisogno di un governo efficiente e risoluto.

Alle spalle del primo ministro Benjamin Netanyahu, i ritratti dei primi premier del paese: David Ben-Gurion, Moshe Sharett, Levi Eshkol, Golda Meir, Menachem Begin

Bisognerà trarre utili insegnamenti da questa follia politica. Come siamo arrivati a questo punto? Come ne usciamo? E cosa si può fare per garantire di non ritrovarsi presto nella stessa situazione? Nei prossimi mesi verranno sicuramente avanzate svariate proposte: eleggere direttamente il primo ministro, alzare il quorum minimo per l’ingresso dei partiti alla Knesset, creare collegi elettorali anziché votare come ora su un collegio unico nazionale, stabilire per legge che al partito di maggioranza venga automaticamente affidato l’incarico di formare il governo senza che debba preventivamente ottenere il sostegno di 61 parlamentari ecc. Ognuno di questi suggerimenti ha i suoi meriti, anche se va ricordato che un paio di essi – l’elezione diretta del primo ministro e l’innalzamento della soglia di sbarramento – sono già stati sperimentati, qui in Israele, con scarso successo.

Ma un’altra idea, che è sicuramente giunta l’ora di approvare, è quella di porre un limite di legge alla durata in carica dei primi ministri. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato premier per 13 anni e nove mesi consecutivi. E’ un sacco di tempo. Di fatto, quasi il 19% della storia di questa nazione. La cosa non è salutare, né per Netanyahu – o qualsiasi altro leader – né per il paese. Non è salutare per il leader perché crea la sensazione di un’investitura tale da meritare dei privilegi. E crea la percezione che una certa persona sia insostituibile, un fatto che erode la distinzione estremamente importante in democrazia tra il leader e lo stato: in democrazia il leader non è lo stato, il leader è al servizio dello stato. Inoltre, la concentrazione del potere nelle mani della stessa persona per così tanto tempo porta inevitabilmente a un’erosione del sacro equilibrio fra i poteri che caratterizza la democrazia.

Un limite alla durata della carica è salutare anche per un’altra ragione: favorisce i passaggi di mano, che a loro volta sono una cosa positiva per il buon governo. C’è un elemento positivo e rigenerante nel fatto in sé che a intervalli regolari emergano e si assumano responsabilità nuovi leader, meno legati alla politica dei loro predecessori, anche quando provengono dallo stesso partito. La mancanza di limiti di mandato garantisce, viceversa, che il primo ministro non faccia crescere mai un successore. Se il premier vuole e può governare indefinitamente, perché mai dovrebbe promuovere la crescita all’interno della sua stessa formazione di qualcuno che un giorno potrebbe sfidarlo?

Certamente non esiste un unico rimedio ai problemi emersi nel sistema politico israeliano. Può anche darsi che un limite di tempo del mandato non avrebbe evitato la collisione politica a cui stiamo assistendo. Ma quando il paese alla fine uscirà dai rottami di questo scontro politico e cercherà di ripartire con un nuovo veicolo, farà bene ad assicurarsi che su di esso sia installata la nuova funzionalità del limite di mandato.

(Da: Jerusalem Post, 12.12.19)