Sulla resilienza della democrazia israeliana

Gli ebrei sono entrati nel mondo moderno con una lunga tradizione di rappresentanza e processi elettorali, una barriera contro derive autoritarie che è insita nel DNA politico d’Israele

Di Shlomo Avineri

Shlomo Avineri, autore di questo articolo

Il governo israeliano è recentemente passato di mano, fra gravi timori e vani tentativi di silurarlo fino all’ultimo momento. Questo successo del processo democratico è stato attribuito a varie cause: le continue manifestazioni di protesta, vari tipi di opposizione, un sistema giudiziario indipendente, mass-media critici e talvolta aggressivi, reiterate elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, il processo in corso a carico all’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. Tutti questi fattori si sono sommati formando una massa critica. Tuttavia vale la pena soffermarsi un momento non solo su queste cause prossime, ma sui fondamenti più profondi della cultura politica d’Israele. E in questo contesto, vale la pena evidenziare alcuni aspetti che non compaiono nelle analisi standard, che si concentrano sulle cause prossime.

La maggior parte degli stessi israeliani non è consapevole del fatto che, ben prima di avere uno stato e una sovranità, gli ebrei in esilio hanno sviluppato nel corso dei secoli una cultura politica originale, radicata non in testi normativi (Bibbia, Mishnà e Talmud), bensì nella concreta realtà sociale della vita ebraica. Questa cultura implicava una tradizione comunitaria che era essenzialmente volontaria e il meccanismo per farla funzionare erano le elezioni. Quando gli ebrei cercavano di preservare la vita ebraica come la intendevano in esilio, erano costretti a farlo sulla base di associazioni volontarie. Se volevano, ad esempio, istituire una sinagoga o istruire i propri figli, non avevano un loro stato o istituzioni religiose centralizzate in grado di fornire tali servizi. Pertanto l’unica opzione era organizzarsi da sé, di propria spontanea volontà. Per farlo, eleggevano delle istituzioni e stabilivano delle regole per gestire le elezioni e le tasse comunitarie. Ogni comunità stabiliva le proprie regole: chi aveva la facoltà di votare o candidarsi, come sarebbero state riscosse le tasse comunitarie per mantenere queste istituzioni, chi avrebbe rappresentato la comunità nei rapporti con il governo.

Basilea, 1897: primo Congresso dell’Organizzazione mondiale sionista

Contrariamente a quanto molti pensano, queste comunità non erano guidate da rabbini, ma da leader comunitari elettivi. Non esistendo sin dalla distruzione del Tempio nel 70 e.v. nessun ente pan-ebraico dotato di autorità vincolante, ogni comunità determinava da sé statuti e regole. Alcune comunità erano più egualitarie, altre più oligarchiche. Ma in tutti i casi si basavano su decisioni ed elezioni comunitarie. Il paradosso è che mentre le società circostanti erano governate da sultani, re e imperatori, la comunità ebraica – nonostante la sua mancanza di stato e sovranità – era governata dai suoi stessi membri.

Come si è detto, i rabbini non erano i  capi della comunità: erano funzionari nominati e stipendiati dalla comunità per fungere da arbitri e insegnanti di Halakha (normativa religiosa ebraica). Ciò conferiva loro un certo status e potere, ma il controllo interno rimaneva nelle mani dei leader della comunità. L’istituzione di rabbini-leader tipica del movimento chassidico, in cui la posizione è ereditaria, costituisce uno sviluppo completamente moderno, emerso solo nel XVIII secolo. E contrastava con la tradizione comunitaria basata sulla rappresentanza e sulle elezioni, che durava da molte generazioni. Col tempo si svilupparono anche istituzioni di livello regionale, come un Consiglio che copriva le quattro terre che comprendevano il regno polacco (dal XVI al XVIII secolo). Questo Consiglio si occupava di questioni ebraiche che riguardavano tutti gli ebrei del regno e si riuniva una volta all’anno in una grande fiera a Lublino. Non a caso, nelle fonti polacche viene chiamato con il nome latino di Senatus Iudaicus (Senato ebraico).

1951: seggio elettorale per militari israeliani in servizio

I documenti comunitari rivelano che c’erano lotte di potere, a volte battaglie ideologiche di principio, a volte per meschine questioni personali. E’ la natura di un governo elettivo. Ed è chiaro che nelle elezioni per le istituzioni comunitarie i ricchi godevano di un vantaggio. Ma anche i membri del parlamento britannico fino al XX secolo non provenivano dai ranghi dei poveri. Anche negli Stati Uniti, George Washington e Thomas Jefferson erano ricchi. In questo senso, la comunità ebraica era analoga alla polis greca o alle colonie britanniche autonome in Nord America. Essere ebreo significava prima di tutto essere membro di una comunità.

Gli ebrei sono entrati nel mondo moderno con una lunga tradizione di rappresentanza e processi elettorali. Quelle elezioni ovviamente non erano democratiche nel senso che tutti avevano diritto di voto. Ma hanno instillato la diffusa consapevolezza che rappresentanza ed elezioni sono esigenze legittime. Questa tradizione ha accompagnato anche la vita ebraica nell’era moderna, post-emancipazione. Una delle prime cose che il Primo Congresso Sionista decise, nel 1897, fu di eleggere la sua dirigenza e determinare le procedure elettorali. Le istituzioni create dai primi immigrati nell’Israele pre-statale per i loro moshav, kibbutz e città e, in seguito, per l’intera comunità ebraica in Terra d’Israele, furono istituzioni elettive. La cultura politica ebraica era basata sulle elezioni e sulla rappresentanza non perché questo fosse ciò che comandava Dio, ma perché è così che si era formata l’identità ebraica nel purgatorio della vita e nelle sue sfide.

1965: residenti di Ashdod in coda per votare

Chiunque osservi paesi che sono degenerati in vari tipi di autoritarismo – come la Turchia, la Polonia e l’Ungheria, per non parlare della Russia – scoprirà che la ragione principale di questa degenerazione è che la loro storia è priva di un’effettiva tradizione di rappresentanza ed elezioni. Ecco perché invece la Cecoslovacchia, che aveva una tradizione di rappresentanza, è una storia diversa. Allo stesso modo, la mancanza di una tradizione di rappresentanza e di elezioni rende più difficile per le società arabe sviluppare sistemi di governo democratici stabili e funzionanti, basati sulla competizione tra avversari anziché fra nemici giurati. Vale anche la pena ricordare che l’ascesa del nazismo in Germania avvenne in una società la cui esperienza democratica prima del 1933 era stata molto breve. La Prussia autoritaria e l’eredità di Otto von Bismarck erano molto più forti e più profondamente radicate nella cultura politica tedesca rispetto alla Costituzione di Weimar, che veniva vista come il risultato della sconfitta della Germania nel 1918 e non venne accettata dalla maggior parte delle élite tedesche.

Anche se la maggior parte degli ebrei israeliani non è consapevole delle radici storiche della democrazia israeliana, l’opposizione a un regime autoritario non basato su vere elezioni e rappresentanza costituisce una chiave di volta della cultura politica israeliana. Questa è la fonte del suo pluralismo e della sua molteplicità di partiti, del suo impegno nella tutela di un sistema giudiziario indipendente, del suo diritto di manifestare e della sua libertà di espressione e di stampa. Questi fondamentali a volte ostacolano la governance, ma d’altra parte impediscono indubbiamente derive verso la tirannia e il controllo monopolistico sui centri di potere: non solo perché è ciò che detta la legge, ma perché è un’attitudine profondamente radicata nella coscienza degli israeliani. Ecco perché il comportamento quasi monarchico che a volte ha caratterizzato il governo di Netanyahu ha indignato così tanti israeliani, compresi membri del suo stesso partito Likud e altri esponenti della destra.

23 Marzo 2021: elezioni in un seggio di Tel Aviv

Come il pluralismo religioso e la molteplicità delle sinagoghe hanno caratterizzato per generazioni la vita religiosa e comunitaria degli ebrei (anche il movimento chassidico non è riuscito a trovare un unico rabbino-leader accettabile per tutte le sue sette), allo stesso modo il pluralismo politico, le elezioni e la molteplicità dei partiti hanno caratterizzato la vita ebraica moderna sia nel movimento sionista che nello stato di Israele. Queste sono le barriere contro la deriva verso tirannia e dittatura presenti nel DNA politico ebraico. Per ragioni analoghe, nessun dittatore ha mai preso il potere in paesi con la tradizione anglosassone di autogoverno, sia che abbiano una costituzione scritta come gli Stati Uniti sia che non abbiamo costituzione scritta come la Gran Bretagna. Là come qui, questo comportamento deriva da una cultura politica con profonde radici nella società, più che dall’importazione di principi astratti dall’estero.

Il pericolo è scomparso, ora che il governo israeliano è passato di mano? Ovviamente no. La indegna sceneggiata alla Knesset nel giorno in cui Naftali Bennett pronunciava il suo discorso inaugurale come primo ministro, insieme a diverse mosse e dichiarazioni di alcuni elementi della destra passata all’opposizione da quando è stato formato il nuovo governo, attestano tendenze che contraddicono la storica cultura politica ebraica e che potrebbero rivelarsi pericolose. Di conseguenza, bisogna augurarsi che il tradizionale pluralismo e l’anti-autoritarismo così radicati nella società israeliana continuino ad accompagnare lo stato ebraico anche in futuro.

(Da: Ha’aretz, 27.6.21)