HaTikvà, un inno da intonare senza remore e senza rincrescimenti

A differenza di altri stati, quando si tratta di Israele c’è chi taccia di “antidemocratico” tutto ciò che rimanda al suo carattere di stato nazionale ebraico

Di Nadav Shragai

Nadav Shragai, autore di questo articolo

Nadav Shragai, autore di questo articolo

L’inno nazionale d’Israele, HaTikvà (“La speranza”), è una delle canzoni ebraiche più note nel mondo ebraico, come Jerushalaim shel zahav  (“Gerusalemme d’oro”) ma molto più antica. Per generazioni è stata cantata da ebrei che non sapevano una parola di ebraico: una canzone con parole non tratte dalla Bibbia o dal libro delle preghiere ebraiche, e tuttavia una canzone profondamente ebraica.

Ora alcuni parlamentari arabo-israeliani avanzano nuovamente la richiesta che le parole dell’inno vengano modificate o sostituite del tutto. Essi sostengono, a ragione, che si sentono scollegati dal contenuto di quel testo e che non si può chiedere loro di identificarvisi. Il che è perfettamente comprensibile. Onestamente, che connessione possono avere con “l’anelito dell’anima ebraica” che “volge lo sguardo verso Sion”? Anche la bandiera bianca e blu, ispirata ai colori dallo scialle di preghiera ebraico e con la stella di David, così come l’emblema dello stato, con al centro la menorah, il candelabro del Tempio, sono simboli lontani dal loro patrimonio. Che connessione possono avere con il secolare scialle di preghiera ebraico? O con re David? O con la menorah razziata dalle legioni romane al Tempio di Gerusalemme? Anche “Israele”, il nome del paese e dello stato, menzionato più di duemila volte nella Bibbia, proviene dalla storia ebraica e non ha alcun collegamento con i cittadini arabi del paese.

"Finché dentro il cuore / l'Anima Ebraica anela / e verso l'oriente lontano / un occhio guarda a Sion / non è ancora persa la nostra speranza / la speranza due volte millenaria / di essere un popolo libero nella nostra terra / la terra di Sion e Gerusalemme" (clicca per ingrandire)

“Finché dentro il cuore / l’anima ebraica anela / e verso l’oriente lontano / un occhio guarda a Sion / non è ancora persa la nostra speranza / la speranza due volte millenaria / di essere un popolo libero nella nostra terra / la terra di Sion e Gerusalemme” (clicca per ingrandire)

Ma – in Israele come altrove – l’inno nazionale, la bandiera e l’emblema dello stato non devono riflettere una sorta di minimo comun denominatore di tutta la popolazione. Come ha giustamente osservato il professor Shlomo Avineri, l’inno dà espressione all’identità storica del paese, e nella maggior parte delle società democratiche vi sono persone che non condividono tale identità. In quanto inno nazionale l’HaTikvà dà effettivamente espressione a un’identità, evocando la bimillenaria speranza del ritorno “alla terra di Sion e di Gerusalemme” come “nazione libera nella propria terra”.

Vi sono degli ebrei che sono infastiditi dalla HaTikvà perché essa infastidisce alcuni arabi israeliani. Ma costoro in realtà perseguono un cambiamento molto più profondo. Coloro che si oppongono alla HaTikvà sono essenzialmente contrari alla definizione di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. In genere sono anche quelli che rifiutano il sionismo come ideologia fondativa dello stato. Preferirebbero un generico rassemblement o – come amano dire – uno stato di tutti i cittadini. Coloro che considerano irrilevante o addirittura senza senso la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come stato nazionale del popolo ebraico probabilmente sono gli stessi che si sentono minacciati dalla HaTikvà. Ma l’HaTikvà è necessaria proprio per questo, perché ci ricorda che Israele non è uno stato qualsiasi, non è solo un rifugio dall’antisemitismo né solo un centro culturale ebraico. E’ un paese che vive nel presente, con precisi diritti nel presente anche se le sue radici affondano nel passato.

Il passato, e in larga misura il futuro, sono la nostra memoria ebraica condivisa. Senza di essa non avremmo mai potuto creare uno stato-rifugio per il popolo ebraico neanche a Kathmandu (o in Uganda, se è per questo). La HaTikvà e i simboli nazionali ebraici dello stato impediscono alla nostra coscienza nazionale di banalizzarsi. Essi attingono alla memoria storica ebraica che viene da lontano, distillandola nei versi dell’inno, nella stella di David, nella menorah del Tempio.

Lo stemma dello Stato d’Israele con la Menorah del Tempio di Gerusalemme trafugata dai Romani nel 70 e.v., come si vede nei rilievi dell’Arco di Tito a Roma

L’emblema dello stato d’Israele con la menorah del Tempio di Gerusalemme trafugata dai Romani nel 70 e.v., come si vede nei rilievi dell’Arco di Tito a Roma

Essi permettono anche agli ebrei laici di riconoscersi nella memoria e nella continuità ebraica come elementi essenziali per la nostra esistenza, qui, in Terra d’Israele. Il passato di una persona non si estende solo ai giorni della sua vita. Vi è anche un profondo significato nel suo background storico, famigliare, culturale, religioso.

Gli arabi israeliani hanno il pieno diritto di vivere come cittadini eguali nello stato di Israele, di godere di pari opportunità, di votare e di essere eletti, ma non possono pretendere di identificarsi in un’espressione nazionale la cui essenza è rappresentata dalla HaTikvà, dalla bandiera e dall’emblema dello stato.

Pertanto nel giorno del ricordo dei caduti e nel giorno dell’indipendenza, come in ogni altro giorno dell’anno, dobbiamo intonare la HaTikvà e sventolare la bandiera bianca e blu senza remore e senza rincrescimenti. Questi sono i nostri simboli, che raccontano la nostra storia. Non è la storia degli arabi israeliani, e non può che essere così.

(Da: Israel HaYom, 8.5.16)

Si veda anche: La bandiera d’Israele: perché una Stella di Davide? Breve storia per immagini di un simbolo che ha accompagnato secoli di storia ebraica e sionista